Il dilemma del regista-sceneggiatore

Scritto da Alberto Cassani mercoledì 5 marzo 2008 
Archiviato in Cinema d'attualità

Qualcuno avrebbe dovuto dire a Paul Thomas Anderson che la sua sceneggiatura de “Il Petroliere” – nominato agli Oscar come miglior film – era un maledetto casino. O che Daniel Day-Lewis, con il suo bocchino e la sua finta zoppia – nominato come miglior attore – si è rubato tutto il film e ha reso qualunque confronto tra i princìpi fondanti del capitalismo americano e della religione americana uno scontro impari. […]

Ovviamente, nessuno ha messo a posto i problemi dell’intreccio, e nessuno ha abbassato i toni della recitazione di Day-Lewis, perché Anderson ha ricoperto il doppio ruolo di sceneggiatore-regista. Come un numero sempre crescente di nuovi filmaker, da Quentin Tarantino a Paul Haggis, anche lui è convinto che il modo migliore per mantenere il controllo creativo lavorando all’interno di un sistema notoriamente avverso all’integrità dell’opera, sia quello di occuparsi in prima persona del maggior numero possibile di aspetti del processo produttivo. Realizzare un film a Hollywood, di solito vuol dire passare anni a scendere a compromessi, dirigere una propria sceneggiatura è invece quanto di più simile allo scrivere un libro ci possa essere in quello che è un mezzo di comunicazione collaborativo.
Ma tutti questi registi hanno davvero ragione? E se anche effettivamente sceneggiare e dirigere fossero due attività compatibli tra loro, i migliori film sono davvero quelli in cui una singola persona si occupa di entrambi i compiti? Ci sono tantissime prove che le possibilità di successo sono quantomeno pari – se non di più – quando questi due importantissimi compiti sono divisi tra almeno due persone diverse.

La maggior parte di queste prove ci arrivano dalla stessa storia del cinema. La percentuale di capolavori partoriti dagli sceneggiatori-registi è penosamente bassa. Prendiamo ad esempio la lista dei migliori 100 film statunitensi di tutti i tempi stilata dall’American Film Institute. Solo sei di questi 100 sono originati dagli sforzi di uno sceneggiatore-regista: “Guerre stellari“, “Eva contro Eva“, “Platoon“, “Luci della città“, “Tempi moderni“, “La corsa all’oro“. Nella lista dell’AFI delle migliori 100 commedie, ce ne sono 11: “L’aereo più pazzo del mondo“, Per favore, non toccate le vecchiette“, “Tutti pazzi per Mary“, “Il grande dittatore“, “Luci della città“, “Dentro la notizia“, “Bull Durham“, “I dimenticati“, “Lady Eva“, “Il miracolo del villaggio” e “Ritrovarsi” (gli ultimi quattro scritti e diretti da Preston Sturges).
Per quelli che trovano la lista dell’AFI troppo dipendente dal giudizio popolare, prendiamo ad esempio la classifica stilata da un gruppo internazionale di critici cinematografici e pubblicata dal sito They Shoot Pictures, Don’t They?. Nei primi 100 solo sei – “La corsa all’oro“, “Persona“, “Il settimo sigillo“, “Eva contro Eva“, “L’uomo con la macchina da presa” e “Aguirre, furore di Dio” – sono stati realizzati da un regista che è stato anche l’unico responsabile della sceneggiatura.

Quindi, il pubblico e la critica tende ad essere d’accordo nel dire che i loro film preferiti sono opera di più di uno sceneggiatore, o comunque quelli che non sono stati scritti solamente dal regista. I lavori di Chaplin, Sturges e Bergman sono l’unica eccezione degna di nota. Film straordinari sono stati il risultato della collaborazione tra un grande regista e un grande sceneggiatore. Orson Welles aveva Herman Mankiewicz in “Quarto potere“. Roman Polanski aveva Robert Towne per “Chinatown“. Federico Fellini aveva Ennio Flaiano per “I vitelloni“, “La dolce vita” e “8 1/2“. Francis Ford Coppola aveva Mario Puzo per “Il padrino” 1 e 2.

Senza dubbio prima del crollo dello studio system negli anni ’60, la grande maggioranza dei registi più celebrati – Griffith, Eisenstein, Gance, Murnau, Pabst, Ford, Hawks, Wellman, Lang, Huston, Wyler, Hitchcock, Walsh, Renoir, Kurosawa, Ozu, Mizoguchi, Ray – divideva i propri compiti con qualcun altro.
Anche in anni più recenti, dopo che il modello di lavoro degli Studio è andato in mille pezzi, molti registi acclamati come autori – Kubrick, Truffaut, il primo Godard, Lean, Peckinpah, Spielberg, Eastwood, Scorsese, Tim Burton – hanno scelto di lavorare con uno sceneggiatore nella maggior parte dei loro progetti. Loro sanno che scrivere una sceneggiatura è un lavoro che ha bisogno del suo tempo, e che realizzare un film significa saper rispondere alle necessità più diverse. Sanno che dirigere un film equivale ad avere comunque il controllo del lavoro.
Dividere il lavoro artistico vuole spesso dire ottenere maggior libertà creativa, non vederla diminuire. Robert Altman aveva la possibilità di improvvisare sul set perché aveva alle spalle le solide sceneggiature di Joan Tewksberry in “Nashville” e di Julian Fellowes in “Gosford Park“. Joel e Ethan Coen collaborano l’uno con l’altro, ma anche così “Non è un paese per vecchi” è il loro miglior film da anni, e l’hanno realizzato seguendo da vicino il romanzo di Cormac McCarthy, alle volte riga per riga.

L’anno scorso tutti i cinque film nominati agli Oscar come miglior film, compreso il vincitore “The Departed“, erano stati prodotti attraverso la normale divisione del lavoro. Quest’anno due dei cinque sono stati realizzati da registi-sceneggiatori. Al giorno d’oggi ci sono sempre più film che vengono realizzati in questo modo, e molti di loro beneficiano della presenza di una singola persona. Mike Leigh in Inghilterra, David Cronenberg in Canada, Werner Herzog in Germania, Pedro Almodóvar in Spagna, Michael Haneke in Austria, Hayao Miyazaki in Giappone, Guillermo del Toro in Messico, Cristian Mungiu in Romania, e anche molti registi statunitensi (Woody Allen, David Lynch, Albert Brooks, Charles Burnett, Todd Solondz, Lisa Cholodenko, Todd Haynes, Tarantino e Anderson) hanno realizzato film estremamente personali che hanno saputo trovare l’apprezzamento di critica e pubblico.
Questa proliferazione dipende in una certa parte anche dal fatto che per questi film è più facile trovare i finanziamenti. Gli investitori comprano il pacchetto completo: due costosi lavori al prezzo di uno. Anderson è riuscito a realizzare “Il petroliere” – con il suo folto cast e la sua accurata ricostruzione storica – per il prezzo contenuto di 25 milioni di dollari.
Vista la rarità con cui questo tipo di complessi e costosi prodotti arriva sul grande schermo, e vista la quantità di prodotti di basso livello di cui i critici sono spettatori, non c’è da stupirsi se abbiano acclamato un progetto senza precedenti come questo di Anderson, nonostante tutti i suoi grossi difetti. Chi non lo preferirebbe ad un altro remake, sequel o blockbuster fotocopiato e privo di anima? Forse la sua sceneggiatura non dovrebbe essere vista come una parabola del lavoro negli Stati Uniti, ma dei pericoli di scrivere e dirigere un film da soli. Il personaggio di Day-Lewis è un cercatore di petrolio indipendente che rifiuta di vendersi alle major. Più d’un regista americano – tra cui il Coppola di “Apocalypse Now” – è stato vicino alla follia nel tentativo di portare a compimento un progetto rischioso.

L’indipendenza dovrebbe essere incoraggiata, se non garantita. Molti notevoli film non sarebbero mai stati realizzati se una sola persona non avesse ricoperto entrambi i ruoli. Nessuna coppia o team di sceneggiatori sarebbe mai stata in grado di concepire “Eraserhead” o “Killer of Sheep“. Trovare uno sceneggiatore che viaggi sulla stessa lunghezza d’onda, per un regista può essere un problema ancora più grosso che non fare da solo entrambe le cose. Il regista taiwanese Hou Hsiao-hsien è stato eccezionalmente fortunato nel trovare Chu T’ien-wen e Wu Nien-Jen, i due sceneggiatori con i quali collabora da anni.
E i migliori film non sempre sono quelli che lasciano senza fiato. “Michael Clayton“, scritto e diretto da Tony Gilroy e anch’esso nominato quest’anno come miglior film, è più completo e soddisfacente de “Il petroliere“. Ed è anche più funzionale: sacrificherei volentieri i primi 45 minuti di show di bravura da parte di Day-Lewis che seduce con le parole i contadini fino a far vendere loro la terra su cui vivono, per un lavoro d’insieme più rotondo, guidato da un depresso ma piacevole George Clooney, in un melodramma che caricaturizza gli avvocati e le grandi aziende nel più puro stile hollywoodiano.
Ma un bravo cosceneggiatore avrebbe potuto far notare ad Anderson dove il suo script si faceva troppo ambizioso e smetteva di funzionare, e come sistemare il problema. Esattamente come Samuel Beckett non era il regista ideale per le sue commedie, così Anderson non deve fare tutto da solo. Ha dato prova di avere una cura suprema per i suoi attori e di saper muovere in maniera soave la macchina da presa. Ma la struttura narrativa non è il suo forte, come dimostrano “Magnolia“, “Ubriaco d’amore” e “Il petroliere“.

Il culto del regista-sceneggiatore con la sua visione senza compromessi dovrebbe essere guardato con più scetticismo da parte dei critici. La bilancia che pesa l’efficacia del portare sul grande schermo le parole di qualcuno può risultare molto facilmente con uno dei due piatti – o anche tutti e due – troppo leggero, ossia in un solipsismo cinematografico. Non sono il primo che suggerisce che Woody Allen, i cui film migliori derivano dalla collaborazione con Marshall Brickman, dovrebbe fermarsi un attimo e chiamare un collega ad aiutarlo con le sceneggiature. E forse Lynch dovrebbe smettere di cercare da solo una trama nei flussi di immagini che nascono durante le sue sessioni di meditazione trascendentale. Forse è venuto il momento di richiamare Mark Frost, il co-autore della puntata pilota di “Twin Peaks“?

L’uscita a fine anno di “Synecdoche, New York” darà modo agli spettatori di giudicare l’esordio alla regia di Charlie Kaufman, il più coraggioso sceneggiatore della sua generazione, autore di pellicole come “Il ladro di orchidee” e “Se mi lasci ti cancello“. Questo suo film (che vede come protagonista Philip Seymour Hoffman) sarà sicuramente qualcosa fuori dell’ordinario, ma che la sua concezione visiva sia a livello della sua audacia verbale e metafisica è tutta un’altra cosa.
Una visione senza compromessi, quando è anche senza controllo può essere una perdita di tempo tanto quanto un prodotto fatto secondo tutte le regole del marketing. E’ una cosa che è stata parodiata in modo superbo dalla HBO nella serie “Entourage“, nell’episodio in cui il monomaniaco regista-sceneggiatore Billy Walsh quasi distrugge la carriera di Vincent Chase in quel grandioso flop che è “Medellin“. Ma l’abbiamo anche visto dal vivo nel 1980, quando Michael Cimino ci regalò “I canceli del cielo“.

I vini migliori, più spesso che no, sono l’unione delle viti migliori.

Richard B. Woodward, Newsweek.com, 21 Febbraio 2008.

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Commenti

10 risposte a: “Il dilemma del regista-sceneggiatore”

  1. Sebastiano ha scritto mercoledì 5 marzo 2008 18:04

    Colpa degli sceneggiatori che erano in sciopero?
    Battute a parte, vedo meglio il lavoro distribuito per competenze.
    Ci metto che Ridley Scott per la sceneggiatura di Blade Runner aveva David Webb Peoples, che curo’ anche la sceneggiatura di “L’esercito delle dodici scimmie” del grande Terry Gilliam, per l’occasione meno “pasticcione” del solito. E non dimentichiamo “GLi spietati” per Eastwood.
    Insomma… che fine ha fatto D.W.Peoples?
    Ah! Anche la sceneggiatura di “Eroe per caso” mi sembra di ricordare fosse perfetta.

  2. Fabrizio ha scritto giovedì 6 marzo 2008 18:14

    Molto interessante, quest’articolo.

    Ho solo due obiezioni. La prima è che secondo me “Michael Clayton”, nonostante la spartizione dei due compiti, non è comunque un film migliore del probabilmente difettoso “Il petroliere”. E’ un esempio che non mi piace. E la seconda – marginale – è che il controllo sulla recitazione di Daniel Day-Lewis la calibra comunque il regista, indipendentemente da una sceneggiatura brutta o bella o difettosa. Semplicemente, Day-Lewis è molto caratterizzante come attore, specie – ricordiamoci di “Gangs of New York” (la cui fallace sceneggiatura è stata fra l’altro partorita da un pool di autori) – se è chiamato ad intepretare personaggi molto forti. E’ che a chi lo dirige piace così. Piacerebbe pure a me, e pazienza se mi oscura qualche “controparte” filmica.

  3. Alberto Cassani ha scritto venerdì 7 marzo 2008 15:52

    “Eroe per caso”, se ricordo bene, alla fine fu condannato per il plagio di un libro scritto dallo sceneggiatore di “Ragazzo di Calabria”.
    Ad ogni modo, Peoples è considerato uno dei migliori sceneggiatori di Hollywood e lavora poco perché vuole lavorare poco. Però guardando la sua filmografia secondo me si vedono tanti film appena discreti (“Giochi di morte”, “Ladyhawke”), qualche porcheria (“Leviathan”, “Soldier”) e pochi film davvero meritevoli. Sopravvalutato.

    “Michael Clayton” alla critica USA è piaciuto molto, ma anche secondo me il paragone col film di PT Anderson è fuori luogo. Probabilmente l’idea era di rimanere nella cinquina delle nomination, anche se avrebbe avuto più senso citare qualche altro film. In ogni caso, probabilmente Woodward intendeva sottolineare come Anderson fosse talmente “dentro” il film da non rendersi conto di quanto Day-Lewis stesse strafacendo.

  4. Fabrizio ha scritto venerdì 7 marzo 2008 18:43

    Sì, ho inteso anch’io così il ragionamento su Day-Lewis. Non sono sicuro però che in una situazione di minor coinvolgimento creativo il regista avrebbe potuto essere più indotto a frenarlo. E’ molto probabile che ad Anderson sia piaciuto e abbia considerato positivo il suo essere così strabordante, come era accaduto a Scorsese.

    Del resto, tu avresti cercato di abbassare un pò i toni della recitazione di Day-Lewis? Forse sì. O forse la forza della sua interpretazione ti avrebbe fatto pensare che in fondo in fondo valesse bene la pena di rischiare uno sbilanciamento con le altre “parti filmiche”.

  5. Sebastiano ha scritto lunedì 10 marzo 2008 00:12

    Ho visto il film e penso che chiedere a DD Lewis di non recitare cosi’ sarebbe come dire a Maradona di passare la palla invece che dribblare tutti quegli inglesi.
    A proposito della sceneggiatura, forse non stava male qualche semplice sforbiciata ma oserei dire (e mi scuso per l’accostamento): non vi sembra che per l’inizio (lunga sequenza in silenzio e suono particolare su CLL deserto) e per la fine (inquadratura e battuta che tagliano di brutto) il buon PT Anderson abbia sbirciato il “Manuale di Kubrick”? Non per fargliene una colpa, eh!

  6. Alberto Cassani ha scritto lunedì 10 marzo 2008 15:40

    chiedere a DD Lewis di non recitare cosi’ sarebbe come dire a Maradona di passare la palla invece che dribblare tutti quegli inglesi.
    Tanto cosa vuoi che cambi? Gli ridanno la palla alta e lui segna di mano…

    Ad ogni modo, sono d’accordo che il male peggiore del film è la lunghezza eccessiva: più di una volta ho guardato l’orologio con insofferenza. E Kubrick… non lo so…

  7. Manulele ha scritto domenica 16 marzo 2008 20:39

    IO invece vi dico che è un grande film e stop…hihi

  8. Alberto Cassani ha scritto domenica 16 marzo 2008 21:22

    Beh… Bello è bello, ma non si può dire che non abbia dei difetti grossi. Mi pare che molti critici ne abbiano scritto male, anche.

  9. patrick ha scritto giovedì 27 marzo 2008 17:53

    finally got around to watching the infamous There Will Be Blood… Daniel-Day Lewis’ performance was top-notch. He takes well to the overbearing, violent father-figure role — he also did this in Gangs of New York.

  10. Alberto Cassani ha scritto giovedì 27 marzo 2008 18:02

    Day-Lewis has been a great actor throughout his whole career, I don’t remember a single movie in which he was less than awesome. But althouh I liked “There Will Be Blood” a lot more than “Gangs of New York”, I think he was better in the latter.

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