I critici, i giornalisti e gli ospiti

Scritto da Alberto Cassani sabato 26 novembre 2011 
Archiviato in Quelli che scrivono...

E’ ormai un po’ di tempo che i giornali italiani, soprattutto quotidiani, hanno preso l’abitudine di far recensire determinati film da personaggi pubblici – non necessariamente legati al mondo del giornalismo e mai legati a quello della critica cinematografica – che hanno un qualche legame particolare con l’argomento trattato dal film di cui si occupano. Questo perché agli occhi dei Direttori, il nome dell’articolista vale più del contenuto dell’articolo. E’ tutta pubblicità, insomma; marketing. Con tanti saluti all’informazione seria: fa nulla se facciamo un cattivo servizio al cinema e ancor peggio ai nostri lettori, l’importante è che le nostre pagine siano riempite da nomi importanti. Se lo fanno rimanendo legati alla sfera personale (“giustificando” così la specificità del loro articolo), meglio ancora.
Una (ma non unica) delle colonne di questa strana idea di giornalismo è la Repubblica, che negli ultimi tempi ha infilato diversi “recensori ospiti” per trattare film che normalmente sarebbero stati argomento del lavoro di Roberto Nepoti e Paolo D’Agostini. Aveva suscitato tante polemiche la veemenza con cui Concita De Gregorio si era scagliata contro il campione d’incassi I soliti idioti (da cui siamo partiti per parlare di cinema italiano nel podcast di Players settimana scorsa), mentre la “recensione” dell’esperta di letteratura inglese Nadia Fusini di Anonymous ha invece sollevato le ire dei frequentatori del blog Pazzo per Repubblica. Ma questi sono solo gli ultimi due esempi di una lista che sarebbe davvero lunga e che era finora rimasta impunita. Sulla questione si esprime però finalmente anche uno che il critico cinematografico lo fa di mestiere, Michele Anselmi, in un articolo pubblicato addirittura in prima pagina dal Secolo XIX del 23 novembre.

Una passione cinefila divorante? Un’ambizione segreta? Il coronamento di un sogno? Giunti al culmine della carriera, i giornalisti di grido, specie se vengono dalla politica e dintorni, si mettono a scrivere di cinema. Proprio da critici o quasi. Gli incassi scendono, i film sono allegramente “scaricati” e visti gratis alla faccia del diritto d’autore, le recensioni contano poco o niente, per la serie “pagine piene, sale vuote”. Eppure l’idea di essere ammessi a una proiezione privata e sdottoreggiare il giorno dopo in prima pagina, magari “problematizzando” il tema del film per riportarlo a una dimensione autobiografica (io mamma, io papà, io cattolico, io ateo, io progressista, io reazionario…), è una tentazione irresistibile. Infatti resistono in pochi.
Non che i critici patentati, quelli che il compianto Tullio Kezich chiamava ironicamente “scribi”, siano sempre meglio. Anzi. La routine genera pigrizia, rassegnazione, assuefazione, povertà di stile. Così è raro che la recensione classica, di merito artistico, finisca in prima pagina. Magari solo per i film di Nanni Moretti, Paolo Sorrentino o Matteo Garrone, meglio se parlano del Caimano, del Divo o di Gomorra. E quando succede non sono più i critici titolari a scriverne, visti come specialisti e noiosi, bensì le firme di punta, ritenute più yé-yé e aggressive, dotate di antenne sensibili, in grado di intercettare, come s’usa dire oggi, gli umori della società.
Guida la tendenza la Repubblica. Brillanti colleghi come Concita De Gregorio, Curzio Maltese o Natalia Aspesi, cresciuti a inchieste e politica, congressi e sfilate, si contendono i film di cui si parla, prenotandosi per tempo, alla faccia del critico ufficiale del giornale. Ma succede anche al Fatto Quotidiano, dove Luca Telese, Furio Colombo e Marco Travaglio divagano volentieri sui temi del cinema. Fino a qualche mese fa si esibiva nell’arte della contro-recensione Stefano Cappellini sul Riformista; e a volte non si nega Luca Ricolfi su La Stampa. Vale pure a destra, naturalmente: Marcello Veneziani o Massimiliano Parente sul Giornale, Camillo Langone o Pietrangelo Buttafuoco su Libero, occasionalmente, se c’è da elogiare Juno in chiave anti-abortista, Giuliano Ferrara sul Foglio. E che dire degli scrittori, talvolta anche sceneggiatori, che si misurano con la cine-recensione sui grandi giornali: da Francesco Piccolo a Vincenzo Cerami e Marco Lodoli.
I film che accendono le attenzioni di questi critici-non critici-ma critici sono un po’ sempre gli stessi: il fenomeno comico Checco Zalone, i luoghi comuni e l’Italia anti-razzista di Benvenuti al Sud, la moda giovanile dei Soliti idioti, l’incantamento mistico di The Tree of Life, il neorealismo di Cetto La Qualunque, Verdone prete-missionario in crisi di vocazione, la chiesa sconsacrata di Olmi che ritrova se stessa accogliendo i migranti, il Papa spaventato di Moretti. Il cinema, insomma, come antidoto alto alla chiacchiera politicista, materia nobile o plebea sulla quale arpeggiare con lo sguardo al costume nazionale, specchio di un Paese effettivamente difficile da ritrarre giornalisticamente, perché sfugge da tutte le parti. D’altro canto, se è vero che in ogni italiano si annida un commissario tecnico di calcio, non v’è dubbio che in quasi tutti i giornalisti alberga un critico di cinema.
Carlo Puca, fine retroscenista politico di Panorama finito in una delle fantasiose commissioni nominate dal ministro Giancarlo Galan prima di andarsene, ha appena ricordato al Secolo XIX d’essere iscritto al Sindacato giornalisti di cinema. Perfino un augusto banchiere come Giovanni Bazoli, sulla prima pagina del Corriere della Sera, ha recensito Il villaggio di cartone spiegandoci che «Olmi questa volta non ha voluto comporre un affresco realistico e poetico (come L’albero degli zoccoli) né un racconto epico (come Il mestiere delle armi)», bensì «realizzare un film al fine esclusivo di porre agli spettatori – e probabilmente riproporre a se stesso – alcuni interrogativi che sono tra i più inquietanti del tempo in cui viviamo». Grazie, non c’eravamo arrivati.
Molto s’è sorriso, recentemente, di un’accorata confessione di Concita De Gregorio «sul senso di sconfitta e sgomento, una specie di incredulità» da lei vissuto, in quanto madre, di fronte al tifo sperticato dei suoi figli per I soliti idioti. Non parlava da padre, invece, Luca Telese quando, pressato dal bisogno impellente di esprimersi su Habemus Papam, vergò sul Fatto: «Ho divorato tutto quello che è stato scritto sul film di Moretti, e mi sono reso conto che nessuno ha parlato di una delle cose che a me è piaciuta di più: cioè della straordinaria capacità di tenere insieme, con una leggerezza rara e con un ritmo di narrazione incalzante, un sentimento molto tragico e una sceneggiatura molto comica». Nessuno?
Ogni tanto, però, i critici-critici si vendicano. Come quella volta che Paolo Mereghetti del Corriere della Sera, letta la recensione di Uomini che odiano le donne a firma del critico letterario di Sette, vergò piccato: «A ignorare del tutto la trama forse si finisce per gustarlo di più, senza farsi prendere dal perverso giochino delle corrispondenze più o meno mantenute tra pagina scritta e schermo (argomento su cui si è già espresso sulle pagine del nostro settimanale Antonio D’Orrico, e su cui ha apposto la sua definitiva sentenza: sì, il film rispetta perfettamente il romanzo, anche se “raffredda” l’attività sessuale del protagonista. Ipse dixit)».
Poi, s’intende, meglio scrivere di cinema che provare a farlo. Quando Indro Montanelli si improvvisò regista per I sogni muoiono all’alba il risultato non fu dei più memorabili.

Nel 2007 il critico del Corriere della Sera Alberto Pezzotta rilasciò a Punto.Zero – un sito di critica su cui scrivevo anch’io e che purtroppo ha avuto vita breve – un’intervista a proposito del suo libro La critica cinematografica, ricordando una cosa: «Montanelli – questo ex fascistone ormai santificato e intoccabile, che ha avuto l’unico merito di dire no a Berlusconi quando era già vecchio – si vantò di avere affidato la critica cinematografica del suo Giornale nuovo a un non-specialista, un romanziere di terza fila, Carlo Laurenzi. Chissà perché non affidò a un dilettante la critica musicale, o la cronaca ippica (conosco invece giornalisti ippici convertiti alle recensioni…). […] Daney scrive quelle parole sacrosante all’inizio degli anni 80, quando il marketing diventa di massa e la società dello spettacolo ha già vinto. E al marketing non servono critici, diceva, ma imbonitori, personaggi che danno “consigli per gli acquisti”, che dicono che cosa è di moda».

[La società moderna è] un villaggio che non ha bisogno di critica, ha bisogno di imbonitori, di ultras, di guardie campestri, insomma di televisione. […] Nell’epoca postmoderna e degli effetti speciali, l’autore è un marchio di fabbrica e il critico non seleziona più, ma ratifica l’esistente e diventa un “colabrodo”. Al massimo distingue ciò che è “da portare” da “ciò che non lo è”. […] Non si chiede più a colui che sa (o che ama o, peggio, che sa perché ama) di dividere il suo sapere con il pubblico, si chiede a colui che non sa nulla di rappresentare l’ignoranza (a volte crassa) del pubblico e, così facendo, di legittimarla.

Serge Daney, Lo sguardo ostinato (Il Castoro, 1999).

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Commenti

4 risposte a: “I critici, i giornalisti e gli ospiti”

  1. Emanuele Sacchi ha scritto giovedì 22 dicembre 2011 02:31

    Il sempre ottimo Alberto Cassani. Chapeau.

  2. Alberto Cassani ha scritto giovedì 22 dicembre 2011 13:38

    Esagerato. Il mio unico merito è di aver tenuto il testo dell’intervista a Pezzotta e di essermela ricordata.

  3. L’emarginazione della critica cinematografica : Diario di un critico ha scritto lunedì 24 marzo 2014 16:05

    […] principale del proprio lavoro – nel novembre 2011 Il Secolo XIX pubblicò in prima pagina un articolo sull’argomento. E fu proprio Michele Anselmi a […]

  4. Capire ciò che vediamo, conoscere ciò di cui scriviamo : Diario di un critico ha scritto lunedì 1 febbraio 2016 11:37

    […] già avuto modo in passato di dedicare spazio al fenomeno delle recensioni cinematografiche scritte sui grandi quotidiani […]

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