Quelle interviste tutte uguali
Scritto da Alberto Cassani lunedì 12 luglio 2010
Archiviato in Quelli che scrivono...
Antonello Sarno è un giornalista romano che in carriera si è occupato di cinema un po’ dovunque e in molti modi diversi, da Mediaset alla Rai a Radio RTL. Ha anche scritto il Castoro dedicato a Pupi Avati e diversialtri libri dedicati al cinema e ai suoi protagonisti, e ha anche realizzato alcuni documentari di montaggio presentati al Festival di Venezia. Da ormai 11 anni collabora con Box Office, quindicinale pubblicato da Editoriale Duesse e indirizzato agli addetti ai lavori dell’industria cinematografica italiana. Per il numero di fine febbraio, Sarno ha scritto un editoriale sul modo in cui sono costretti a lavorare i giornalisti televisivi in occasione delle conferenze stampa. Una pacata protesta verso il menefreghismo che le case di distribuzione sembrano avere riguardo la qualità del prodotto televisivo che parla dei loro film.
L’argomento sarebbe da ampliare, perché innanzi tutto è rarissimo che attori e registi stranieri visitano anche Milano oltre che Roma. Di recente è capitato con cast e troupe dello spagnolo Cella 211, ma personalmente non ricordo di aver mai visto star di Hollywood all’ombra della Madonnina. Questo perché le case di distribuzione hanno tutte sede a Roma, e nonostante Milano sia la sede di alcuni dei quotidiani più venduti d’Italia e delle tre riviste di cinema generaliste più importanti del nostro paese, il capoluogo lombardo è visto come una tappa assolutamente secondaria nelle visite promozionali organizzate dai distributori.
La seconda cosa, che riguarda Roma come Milano e i film italiani come quelli stranieri, è che per le testate più piccole e per i siti internet meno blasonati è praticamente impossibile ottenere delle interviste singole per film che non siano ultra-indipendenti. Quando va bene, si riesce a fare delle brevi interviste di gruppo con altre 4-5 persone, il che vuol dire che per redigere l’intervista è necessario rifarsi in maniera massiccia a quanto viene detto in conferenza stampa. Di quello che succede al Festival di Venezia non ne parliamo neanche, ma va detto che anche lì i problemi veri ci sono quasi esclusivamente con gli uffici stampa italiani, perché con quelli stranieri io ho sempre trovato molta più disponibilità e lo stesso hanno potuto notare i colleghi con cui ho parlato a riguardo. Senza contare che, come già lamentava Roger Ebert nell’agosto dell’anno scorso, è ormai impossibile parlare di qualunque cosa che non sia il film in uscita, rendendo così le interviste ancor più ripetitive e ancor meno interessanti.
Ad ogni modo, dovendo tutti riproporre quasi solo domande e risposte delle conferenze stampa e in ogni caso sempre e solo rigorosamente all’interno dello stretto recinto di argomenti voluto dall’ufficio stampa, alla fine escono tante interviste tutte uguali. Che è proprio ciò di cui si era lamentato Sarno…
Stavolta possiamo ben dire di aver cominciato noi. Il primo pezzo che, or sono dieci anni, ho scritto per questa rubrica era infatti dedicato proprio al modo in cui i cosiddetti talent vengono, per così dire, “impacchettati” ad uso e consumo della stampa televisiva. Mentre, ad esempio, i photocall ormai allargatissimi (e giustamente!) anche alle troupe tv e le conferenze stampa stabilmente moderate da un collega autorevole continuano a vivere con giovinezza la loro immortalità, le interviste televisive segnano purtroppo il passo. Con conseguenze serie. Ora spiego perché, tenendo sempre ben presente che questa non è una rubrica partigiana.
Nel senso che non tira l’acqua al mulino né dei giornalisti né degli uffici stampa. Lo sforzo, semmai, è quello di far lavorare meglio entrambe le categorie, in termini di migliori risultati. Dieci anni fa, dicevo, scrivemmo della sempre maggiore inadeguatezza dei classici “set” nei quali vengono quasi sempre costretti attori e registi spesso famosissimi, a volte esplosivi, se lasciati liberi di esprimersi anche fisicamente, o dive bellissime, o comici esilaranti che finiscono inevitabilmente per appassirsi, intimidirsi, azzerarsi seduti ad un metro di distanza dal giornalista, in stanze buie, con luci sepolcrali (e non vada a detrimento dei service: gli operatori sono quasi sempre fantastici. Sono le location, per lo più stanze d’albergo scarsamente illuminate ed anguste, impossibili da illuminare decentemente anche per Storaro e Rotunno messi insieme). Il tutto in slot, ormai siamo ‘mericani, generalmente di 4-5 minuti (eccezion fatta per Scorsese che, da bravo professionista, ne ha imposti ben dieci! Viva la faccia di un grande regista). Sento già le voci «ma ce lo impongono gli americani». Sbagliato: è un sistema che viene usato anche con gli italiani. Oppure «ma è più comodo»: è vero. Per loro, forse, ma non per i giornalisti che si trovano con interviste tutte uguali, statiche da morire, prefabbricate nell’immagine e nelle risposte. Alla fine, tutti i Tg sembrano aver preso un’intervista redazionale dalla distribuzione, sempre la stessa, da caratterizzare con il controcampo del giornalista a seconda del Tg che la manda in onda. Questo, dieci anni fa. Era facile svincolarsi. Ove possibile, al costo di una troupe pagata dai Tg, il giornalista poteva muoversi in autonomia e fare delle interviste veloci ma almeno personali, in piedi, con una bella luce, gente che passa, Roma sullo sfondo. Un’intervista, in altre parole, “viva”!
Oggi, le cose sono molto cambiate. I Tg non hanno più fondi, specie per il cinema, ed ecco allora che il contributo fornito dalle distribuzioni, intervista “fissa” di cui sopra, ha assunto un’importanza enorme in quanto spesso unica intervista da poter realizzare. Ecco allora che i difetti di cui parlavamo, da este¬tici (ma il cinema è immagine e l’estetica è dunque fondamentale) sono diventati strutturali e molto più evidenti per tutti gli utilizzatori. L’omologazione delle immagini e delle interviste stesse, con l’imbarazzo della locandina king-size alle spalle che incombe su tutto hanno fatto sì che in tanti Tg si stia ripensando seriamente all’utilizzo delle interviste così realizzate. Anche perché, omologazione per omologazione, si potrebbe a quel punto attingerle a costo zero dall’epk del film che puntualmente viene sempre consegnato.
Ma sono interviste promozionali, si dirà da una parte, è chiaro che il film si deve vedere. Ma noi facciamo i giornalisti, non i venditori di spazi pubblicitari, si dirà dall’altra. La soluzione va concertata, è ovvio, e propongo un tavolo di discussione tra il SNGCI e il raggruppamento degli uffici stampa. Al di là delle trattative, nel frattempo, il mio personale suggerimento è quello di usare i service per riprendere i photocall e distribuirne le immagini ai Tg. E di abolire i loculi almeno per i talenti italiani. Si possono allestire set in piedi o all’aperto o lasciare al giornalista un minimo di regia. Please.
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2 risposte a: “Quelle interviste tutte uguali”
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ciao, se passi da me c’è un premio per te
Grazie infinite, Stefano. Lunedì pubblico le mie nomination.