Sottovalutare lo spettatore abituale
Scritto da Alberto Cassani lunedì 15 agosto 2011
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Ogni tanto mi capita, nello scrivere una recensione, di fare riferimento allo “spettatore abituale”. Molto più spesso mi capita di pensarci, mentre vedo un film o mentre rifletto su ciò che ho appena visto. Lo spettatore abituale, com’è ovvio dall’espressione, è una persona abituata a vedere film. Non necessariamente un cinefilo, magari qualcosa di simile a chi negli Stati Uniti viene definito semplicemente “moviegoer”, colui che va al cinema. In ogni caso, una persona abituata allo spettacolo cinematografico e di conseguenza al suo linguaggio e alle sue regole, pur senza realmente conoscerle nel dettaglio. Per dirla brutalmente, se anche non avessimo studiato a scuola la legge della gravità di Newton, sapremmo comunque che un oggetto lasciato cadere cade a terra invece che verso l’alto. Lo spettatore abituale sa, molto spesso, che se in un film succede una certa cosa è per quella determinata ragione, anche se quasi mai sa perché è così.
Questa consapevolezza va ben al di là della semplice comprensione delle regole basilari della grammatica cinematografica, bensì si estende anche a processi narrativi più complessi. Probabilmente questa perspicacia dipende dal fatto che lo spettatore abituale è in grado di riflettere, anche solo inconsciamente, su ciò che sta vedendo pur abbandonandosi alle emozioni che lo spettacolo suscita in lui, perché vedendo un buon numero di film incorre spesso in soluzioni simili e ha imparato a riconoscerle e spiegarsele. Il che non vuol dire che lo spettatore abituale sia uno spettatore particolarmente attento: è semplicemente abituato al linguaggio filmico. Grazie a questa abitudine potrebbe essere in grado di capire nel giro di pochi minuti il trucco dietro a The Village ma probabilmente non quello dietro a The Life of David Gale, e sicuramente non quello svelato dai titoli di testa de Il cartaio. Questo perché se il primo richiede “semplicemente” una riflessione sulla situazione che ci viene presentata che deve partire dalle precedenti visioni dello spettatore (comprendenti ma non limitate agli altri film dello stesso regista), il secondo richiede invece una serie di deduzioni logiche eccessivamente speculative riguardanti le azioni dei personaggi precedenti l’inizio del film, personaggi che per di più si trovano in una situazione che lo spettatore ha potuto vedere di rado, al cinema. Il terzo, invece, richiede un’attenzione particolare per un aspetto filmico (i titoli di testa e di coda) che per essere compreso necessita di una conoscenza specifica, e che di conseguenza viene quasi sempre praticamente ignorato.
Nel suo libro-intervista con François Truffaut, Hitchcock spiega di aver adottato una soluzione particolarmente elaborata in Psyco perché ovviamente non poteva mostrare il volto dell’assassino ma se l’avesse semplicemente nascosto «il pubblico non si sarebbe fidato». Ossia, avrebbe capito per quale motivo Hitchcock aveva voluto nasconderlo. Questa consapevolezza dell’intelligenza e della perspicacia del proprio pubblico manca purtroppo a moltissimi registi anche moderni, che spesso addirittura la ignorano volutamente. Questa mancanza è ancora più grave proprio nel cinema di genere, dove i più piccoli particolari assumono ancora più importanza. Guardate, ad esempio, questa scena da I ragazzi del massacro, del pur bravo Fernando Di Leo.
Ora, è evidente che Di Leo nasconda artificiosamente il volto della donna per non svelarne l’identità. Il problema è che lo spettatore abituale riesce a fare un passo in più, che evidentemente il regista non si aspettava. Lo spettatore abituale “non si fida”, come diceva Hitchcock, e allora pensa che se il regista ci vuole nascondere l’identità della donna è perché già la conosciamo. Ma nessuna delle donne viste fino a quel momento è compatibile che quella che stiamo vedendo di spalle, né tantomeno ce n’è una con quella voce. E allora, se il regista ci sta nascondendo il volto di quella donna è perché lei…
Facciamo un altro esempio, sempre di genere e sempre italiano. Nella mia recensione all’interessante Un delitto impossibile scrissi che il titolo era eccessivamente rivelatorio agli occhi di chi è abituato a leggere gialli. Perché in effetti è forse una cosa che va al di là dei processi mentali dello spettatore abituale, ma non di quelli di chi è abituato a ragionare di logica, cosa che i lettori di gialli fanno sempre molto volentieri. Nel film si raccontano le indagini sull’omicidio per avvelenamento di un magistrato. Il magistrato che segue il caso sospetta di diverse persone, ma una di queste è morta molto prima della vittima. Ve lo ripeto di nuovo: il film si intitola Un delitto impossibile.
Adesso potreste pensare che queste cose siano evidenti per il modo in cui le ho presentate io, ma in realtà sono evidenti perché lo sono: perché le cose stanno così. L’unica ragione dietro queste scelte è che gli autori non pensavano che gli spettatori sarebbero stati in grado di fare questi ragionamenti durante la visione. Li hanno sottovalutati, e ovviamente hanno sbagliato. In una scena di Dissolvenza al nero – romanzo di Davide Ferrario incentrato sulla visita a Roma di Orson Welles per girare Cagliostro nel 1947 – Welles è in sala montaggio per mettere insieme il Macbeth e capisce di non poter usare un’inquadratura perché nel quadro c’è un particolare che non collima con le inquadrature precedenti. Il narratore – che gli fa da guida nel corso del suo soggiorno italiano – gli dice che in realtà quel particolare non si nota neanche, al che Welles si gira verso di lui e gli risponde secco «io l’ho notato!».
Il regista non deve mettersi sullo stesso piano dello spettatore, né tantomento innalzare lo spettatore sul piano in cui sta lui, ma non può assolutamente permettersi di pensare di essere più intelligente e attento del suo pubblico. Se lui nota un particolare, è perché quel particolare si nota; se lui fa un ragionamento logico, allora anche gli spettatori saranno in grado di farlo. È proprio così che si creano i peggiori fallimenti, pensando di poterla fare a tutti e beccandosi invece dei grandi pernacchi. Perché allo spettatore abituale non la si fa tanto facilmente. E di questo, anche i critici devono tenere conto.
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Commenti
4 risposte a: “Sottovalutare lo spettatore abituale”
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Interessantissimo e condivisibilissimo post. Mi trovi totalmente d’accordo. Bellissimo l’aneddoto su Welles, non ne ero a conoscenza.
Grazie dell’apprezzamento. L’aneddoto su Welles, però, è un’invenzione di Davide Ferrario per il suo romanzo. Cioé, Welles è davvero venuto a Roma per girare “Cagliostro” e la sera montava davvero “Macbeth”, ma quel dialogo l’ha inventato Ferrario.
Ah, ok, non avevo compreso. E’ carino comunque 🙂
Hai scritto una grande verità.
jak