Una certa tendenza del cinema francese

Scritto da Alberto Cassani giovedì 1 maggio 2008 
Archiviato in Storia del cinema

On peut que le sens du mot art soit tenté de donner conscience à des hommes de la grandeur qu’ils ignorent en eux. (André Malraux, Le temps du mépris).

Queste osservazioni non hanno altro scopo che cercare di definire una certa tendenza del cinema francese – tendenza detta del realismo psicologico – e di definirne i limiti.

Dieci o dodici film…

Se il cinema francese esiste per il centinaio di film prodotti all’anno è chiaro che solo ieci o dodici meritano di trattenere l’attenzione dei critici e dei cinefili, e dunque quella di questi Cahiers.
Questi dieci o dodici film rappresentano quella che è stata con generosità chiamala la ‘tradition de la qualité’ (‘tradizione della qualità’), e con le loro ambizioni costringono all’ammirazione la stampa estera e difendono due volte all’anno i colori della Francia a Cannes e a Venezia, dove, dal 1946, arraffano abbastanza regolarmente medaglie, Leoni d’oro e gran premi.
Agli inizi del sonoro, il cinema francese era un onesto plagio del cinema americano. Sotto l’influenza di “Scarface” creavamo il divertente “Il bandito della Casbah”. Fu poi a Prévert che la sceneggiatura francese dovette parte della sua evoluzione; “Il porto delle nebbie” rimane il capolavoro della scuola detta del realismo poetico.
La guerra e il dopoguerra hanno rinnovato il nostro cinema che si è evoluto sotto l’effetto di una pressione interna, e al realismo poetico – che si può dire morì chiudendo dietro a sé “Les portes de la nuit” (“Mentre Parigi dorme”) – si è sostituito il realismo psicologico, illustrato da Claude Autant-Lara, Jean Delannoy, René Clément, Yves AUégret e Marcel Pagherò.

Film di sceneggiatori…

Se vogliamo proprio ricordare che Delannoy ha appena girato “Le Bossu” (“Il cavaliere di Lagardère”) e “La part de l’ombre”, Claude Autant-Lara “Le plombier amoureux” e “Lettres d’amour” (“L’amore ha sbagliato indirizzo”), Yves Allégret “La botte aux rèves” (“Lo scrigno dei sogni”) e “Les démons de l’aube” e che tutti questi film sono giustamente riconosciuti come delle operazioni commerciali, potremo riconoscere che, dipendendo i successi o i fiaschi di questi registi dalle sceneggiature che essi scelgono, “La sinfonia pastorale”, “Il diavolo in corpo”, “Giochi proibiti”, “Manèges”, “Un homme marche dans la ville” sono essenzialmente film di sceneggiatori.
E poi l’indiscutibile evoluzione del cinema francese non è forse dovuta essenzialmente al rinnovamento degli sceneggiatori e dei soggetti, all’audacia nel trattare i capolavori, e infine alla fiducia data al pubblico considerandolo sensibile a soggetti generalmente definiti difficili?
Ecco perché qui non parlerò che degli sceneggiatori, coloro che hanno per l’appunto dato origine al realismo psicologico in seno alla ‘tradition de la qualité’: Jean Aurenche e Pierre Bost, Jacques Sigurd, Henri Jeanson (nuova maniera), Robert Scipion, Roland Laudenbach ecc.

Oggi nessuno ignora più…

Dopo aver tentato la regia girando due cortometraggi dimenticati, Jean Aurenche si è specializzato nell’adattamento. Nel 1936 firmava, con Anouilh, i dialoghi di “Vous n’avez rien à déclarer” e “Les dégourdis de la 11c”.
Nello stesso periodo, Pierre Bost pubblicava nella NRF («Nouvelle Revue Francaise») degli ottimi romanzi brevi.
Aurenche e Bost lavorarono insieme per la prima volta per adattare e creare i dialoghi di “Douce” (“Evasione”), diretto da Claude Autant-Lara.
Oggi nessuno ignora più che Ausenche e Bost hanno riabilitato l’adattamento rivoluzionando l’idea che se ne aveva fino ad allora, e che al vecchio pregiudizio del rispetto alla lettera del testo hanno sostituito, pare, quello contrario del rispetto dello spirito, al punto che si è arrivati a scrivere questo audace aforisma: «Un adattamento onesto è un tradimento» (Carlo Rim, Travelling et sex-appeal).

L’equivalenza…

Il procedimento detto dell’equivalenza è la pietra di paragone dell’adattamento come lo praticano Aurenche e Bost. Questo procedimento presuppone che nel romanzo adattato ci siano scene che possono essere girate e altre no, e che invece di sopprimere queste ultime (come si faceva fino a poco fa) bisogna inventare delle scene equivalenti, cioè come l’autore del romanzo le avrebbe scritte per il cinema.
Inventare senza tradire è la parola d’ordine che Aurenche e Bost amano citare, dimenticando che si può anche tradire per omissione. Il sistema di Aurenche e Bost è così affascinante anche nell’enunciazione del suo principio, che nessuno ha mai pensato di verificarne il funzionamento abbastanza da vicino.
È un po’ quello che mi propongo di fare adesso.
Tutta la reputazione di Aurenche e Bost si basa su due punti fissi:
1) infedeltà allo spirito delle opere che adattano;
2) il talento che vi mettono.

La famosa fedeltà

Dal 1943 Aurenche e Bost hanno adattato e scritto i dialoghi per: “Douce” (“Evasione”) di Michel Davet, “La sinfonia pastorale” di Gide, “Il diavolo in corpo” di Radiguet, “Un recteur à l’ile de Sein” (“Dio ha bisogno degli uomini”) di Queffelec, “Les jeux inconnus” (“Giochi proibiti”) di François Boyer, “Le blé en herbe” (“Quella certa età”) di Colette.
Inoltre hanno scritto un adattamento del “Diario dì un curato di campagna” che non è mai stato girato, una sceneggiatura su Jeanne d’Arc di cui è stata realizzata solo una parte (da Jean Delannoy) e infine sceneggiatura e dialogo di “Arriva fra’ Cristoforo” girato da Claude Autant-Lara.
Avrete notato la profonda diversità di ispirazione delle opere e degli autori adattati. Per compiere il ‘tour de force’ che consiste nel restare fadeli allo spirito di Michel Davet, Gide, Radiguet, Queffelec, François Boyer, Colette e Bernanos, immagino si debbano possedere a propria volta una scioltezza di spirito e una personalità capace di dividersi poco comuni, come anche un singolare eclettismo.
Bisogna anche considerare che a Aurenche e Bost capita di collaborare con i registi più diversi; Jean Delannoy, per esempio, si considera volentieri un moralista mistico. Ma la sottile bassezza di “Ragazzo selvaggio” (“Le garçon sauvage”), la meschinità di “L’ora della verità”, la banalità di “La mute Napoléon” mostrano abbastanza chiaramente l’intermittenza di questa vocazione.
Claude Autant-Lara, invece, è ben noto per il suo anticonformismo, le sue idee ‘avanzate’, il suo accanito anticlericalismo; riconosciamo a questo regista il merito di rimanere nei suoi film sempre onesto con se stesso.
Poiché il tecnico del tandem è Pierre Bost, è a Jean Aurenche che sembra spettare la parte spirituale del lavoro comune.
Cresciuto dai gesuiti, Jean Aurenche ne ha conservato la nostalgia e allo stesso tempo il rifiuto. Se ha flirtato con il surrealismo, sembra aver simpatizzato con i gruppi anarchici degli anni Trenta. Questo per far capire quanto forte è la sua personalità e quanto appaia inoltre incompatibile con quelle di Gide, Bernanos, Queffelec, Radiguet. Ma l’esame delle opere ci farà capire senz’altro di più.
L’abate Amédée Ayffre ha saputo analizzare molto bene “La sinfonia pastorale” e definire i rapporti dell’opera scritta con l’opera filmata:

Riduzione della fede ad una psicologia religiosa in Gide, riduzione di questa ad una psicologia tout court nel film… A questo abbassamento qualitativo corrisponde ora, secondo una legge ben nota agli esteti, un aumento quantitativo. Si aggiungono nuovi personaggi: Piette e Casteran, incaricati di rappresentare certi sentimenti. La tragedia diventa dramma, melodramma («Dieu au Cinema», p. 131).

Ciò che mi lascia perplesso in questo famoso procedimento dell’equivalenza è che non sono affatto sicuro che un romanzo comporti delle scene che non si possono girare, e sono ancora meno sicuro che queste scene definite impossibili da girare lo siano poi per tutti.
Lodando Robert Bresson per la sua fedeltà a Bernanos, André Bazin terminava il suo splendido articolo, “La stylistique de Robert Bresson”, con queste parole: «Dopo “Il diario di un curato di campagna”, Aurenche e Bost non sono più che i Viollet-Le Duc dell’adattamento».
Tutti quelli che ammirano e conoscono bene il film di Bresson ricordano la bellissima scena del confessionale dove il viso di Chantal “ha cominciato ad apparire poco a poco, gradatamente” (Bernanos).
Quando, molti anni prima di Bresson, Jean Aurenche scrisse un adattamento del “Diario”, rifiutato da Bernanos, giudicò quella scena impossibile da girare e la sostituì con quella che riproduciamo qui:

– Vuole che l’ascolti qui? (indica il confessionale).
– Non mi confesso mai.
– Eppure ieri si è confessata visto che questa mattina ha fatto la comunione?
– Non ho fatto la comunione Lui la guarda, molto sorpreso.
– Mi perdoni, ma le ho dato io la comunione.
Chantal si allontana rapidamente verso l’inginocchiatoio che occupava al mattino.
– Venga a vedere.
Il curato la segue. Chantal gli indica il messale che lei ha lasciato lì.
– Guardi in questo libro, signore. Io forse non ho più il diritto di toccarlo.
Il curato, molto perplesso, apre il libro e scopre tra due pagine l’ostia che
Chantal ha sputato. Ha un’espressione stupefatta e sconvolta.
– Ho sputato l’ostia, dice Chantal.
– Vedo, dice il curato con voce neutra.
– Non ha mai visto una cosa simile, vero? dice Chantal, dura, quasi trionfante.
– No, mai, dice il curato apparentemente calmissimo.
– Sa che cosa bisogna fare?
Il curato chiude gli occhi per un breve istante. Riflette o prega. Poi dice:
– È molto semplice rimediare, signorina. Ma è orribile commetterlo. Si dirige verso l’altare portando il libro aperto. Chantal lo segue.
– No, non è orribile. La cosa orribile è ricevere l’ostia in stato di peccato.
– Era dunque in stato di peccato?
– Meno di altri, ma per loro fa lo stesso.
– Non giudichi.
– Non giudico, condanno, dice Chantal con violenza.
– Stia zitta davanti al corpo di Cristo!
Si inginocchia davanti all’altare, prende l’ostia dal libro e Pinghiotte.

Una discussione sulla fede contrappone a metà del libro il curato e un ateo ottuso di nome Arsène. La discussione termina con questa frase di Arsène: «Quando si è morti, è morto tutto». Nell’adattamento questa discussione, sulla tomba del curato, tra Arsène e un altro curato, conclude il film. La frase «Quando si è morti, è morto tutto», doveva essere l’ultima battuta del film, quella portante, l’unica che forse il pubblico ricorda. Bernanos non diceva per concludere: «Quando si è morti, è morto tutto», ma: «Che cosa importa, tutto è grazia».
«Inventare senza tradire», dite; a me sembra che qui ci sia abbastanza poca invenzione e molto tradimento. Ancora un dettaglio o due. Aurenche e Bost non hanno potuto fare “II diario di un curato di campagna” perché Bernanos era vivo. Robert Bresson ha dichiarato che, vivo Bernanos, si sarebbe preso maggior libertà con l’opera. Così Aurenche e Bost hanno dei problemi perché si è vivi, Bresson si crea dei problemi perché si è morti.

La maschera strappata…

Dalla semplice lettura di questo estratto si ricava:
1) un sospetto di infedeltà costante e deliberata sia allo spirito che alla lettera;
2) un gusto molto marcato per la profanazione e il blasfemo.
Questa infedeltà allo spirito degrada allo stesso modo “II diavolo in corpo” romanzo d’amore che diventa un film anti-militarista e anti-borghese, “La sinfonia pastorale”, storia di un pastore innamorato dove Gide diventa una Béatrix Beck, “Un recteur à l’île de Sein” di cui si baratta il titolo con quello ambiguo di “Dio ha bisogno degli uomini” e dove gli isolani sono mostrati come i famosi ‘stupidi’ di “Las Hurdes” di Buñuel.
Quanto al gusto del blasfemo, si manifesta costantemente in maniera più o meno insidiosa, a seconda del soggetto, del regista, o addirittura della star.
A conferma, ricordo la scena del confessionale in “Evasione”, il funerale di Marthe in “II diavolo in corpo”, l’ostia profanata nell’adattamento di “II diario di un curato di campagna” (scena riportata in “Dio ha bisogno degli uomini”), l’intera sceneggiatura e il personaggio di Fernandel in “Arriva fra’ Cristoforo”, tutta la sceneggiatura di “Giochi proibiti” (la lite al cimitero).
Tutto starebbe dunque a indicare Aurenche e Bost come gli autori di film francamente anticlericali, ma siccome i film con i preti sono di moda, i nostri autori hanno accettato di piegarsi a questa moda. Poiché non è giusto – pensano loro – tradire le proprie convinzioni, il tema della profanazione e del blasfema e i dialoghi a doppio senso vengono usati qua e là per provare agli amici che si conosce l’arte di ‘infinocchiare il produttore’ pur dandogli soddisfazione, e di infinocchiare anche il ‘grande pubblico’ altrettanto soddisfatto.
Questo procedimento merita abbastanza bene il nome di alibismo; è scusabile e il suo uso necessario in un’epoca in cui bisogna continuamente fingere stupidità per operare intelligentemente, ma se è così normale ‘infinocchiare il produttore’, non è un po’ scandaloso ‘riscrivere’ in quel modo Gide, Bernanos e Radiguet?
A dire il vero, Aurenche e Bost lavorano come gli sceneggiatori di tutto il mondo, come prima della guerra Spaak o Natanson.
Nella loro testa qualsiasi storia comprende i personaggi A, B, C, D. All’interno di questa equazione, tutto si organizza in funzione di criteri noti solo a loro. Gli accoppiamenti si fanno secondo una simmetria ben concertata, alcuni personaggi scompaiono, altri sono inventati, il copione si allontana a poco a poco dall’originale per diventare un tutto, informe ma brillante, e un nuovo film, passo passo, fa il suo ingresso solenne nella ‘tradition de la qualité’.

D’accordo, direte…

«Ammettiamo che Aurenche e Bost siano infedeli – mi direte – ma ne negate anche il talento?». Il talento, certo, non dipende dalla fedeltà, ma io non riesco a immaginare un adattamento che sia valido se non scritto da un uomo di cinema. Aurenche e Bost sono essenzialmente dei letterati e quello che io gli rimprovero è di disprezzare il cinema sottovalutando. Di fronte a una sceneggiatura, si comportano come chi crede di rieducare un delinquente trovandogli un lavoro; sono sempre convinti di aver ‘fatto il massimo’ per la sceneggiatura adornandola di finezze e di quella scienza delle sfumature che sono il merito minore dei romanzi moderni. D’altronde non è il minor difetto degli esegeti della nostra arte quello di credere di onorarla usando un gergo letterario. (Non si è forse parlato di Sartre e di Camus per l’opera di Pagliero, e di fenomenologia per quella di Allégret?).
In realtà, Aurenche e Bost rendono insipide le opere che adattano, perché equivalenza va sempre sia nel senso del tradimento sia in quello della mancanza di audacia. Ecco un piccolo esempio: in “II diavolo in corpo” di Radiguet, François incontra Marthe sul marciapiede di una stazione, mentre sta saltando dal treno in movimento; nel film si incontrano nella scuola trasformata in ospedale. Qual è lo scopo di questa equivalenza? Permettere agli sceneggiatori di introdurre gli elementi anti-militaristi aggiunti all’opera, d’accordo con Claude Autant-Lara.
Ora è evidente che l’idea di Radiguet era un’idea di messa in scena, mentre la scena inventata da Aurenche e Bost è letteraria. Potrei, credetemi, moltiplicare gli esempi all’infinito.

Bisognerebbe proprio che un giorno…

I segreti si mantengono solo per poco, le ricette si divulgano, le nuove conoscenze scientifiche sono argomento di comunicazioni all’Accademia delle Scienze e, poiché, secondo Aurenche e Bost, l’adattamento è una scienza esatta, bisognerebbe proprio che uno di questi giorni ci spiegassero in nome di quale criterio e in virtù da quale sistema, di quale geometria interna e misteriosa dell’opera, eliminano, aggiungono, moltiplicano, dividono e ‘correggono’ i capolavori.
Una volta espressa l’idea secondo cui queste equivalenze non sono che timide astuzie per aggirare le difficoltà, risolvere con la colonna sonora problemi che riguardano l’immagine, pulire eliminando per ottenere sullo schermo solo inquadrature difficili, illuminazioni complicate, fotografia ‘leccata’, il tutto mantenendo ben viva la ‘tradition de la qualité’, è ora di esaminare l’insieme dei film sceneggiati e adattati da Aurenche e Bost e di ricercare la presenza sistematica di certi temi che spiegheranno senza giustificarla la costante infedeltà di due sceneggiatori alle opere che prendono come ‘pretesto’ e ‘occasione’.
Riassunte in due righe, ecco come appaiono le sceneggiature trattate da Aurenche e Bost:
“La sinfonia pastorale”: è un pastore, è sposato. Ama senza averne diritto.
“Il diavolo in corpo”: fanno all’amore senza averne diritto.
“Dio ha bisogno degli uomini”: officia, benedice, dà l’estrema unzione senza averne diritto.
“Giochi proibiti”: seppelliscono senza averne diritto.
“Quella certa età”: si amano senza averne diritto.
Mi direte che così racconto anche il libro, e non lo nego. Faccio solo notare che Gide ha scritto anche “La porta stretta”, Radiguet “II ballo del Conte d’Orgel”, Colette “La vagabonda”, e che nessuno di questi romanzi ha tentato Delannoy o Autant-Lara.
Vi invito inoltre a notare che le sceneggiature, di cui non ritengo utile parlare qui, confermano la mia tesi: “Le mura di Malapaga”, “L’amante di una notte”, “Arriva fra’ Cristoforo”…
Si vede l’abilità dei promotori della ‘tradition de la qualité’ nello scegliere solo soggetti che si prestano ai malintesi su cui si basa tutto il sistema.
Sotto un’apparenza di letteratura – e quindi naturalmente di qualità – viene data al pubblicò la solita dose di bassezze, anticonformismo e facile audacia.

L’influenza di Aurenche e Bost è immensa…

Gli scrittori che si sono successivamente dedicati ai dialoghi cinematografici hanno osservato gli stessi imperativi; Anouilh, tra i dialoghi di “Les dégourdis de la 11me” e “Un capriccio di Caroline Chérie” ha introdotto in film più ambiziosi il suo universo immerso in un’asprezza da bazar, con uno sfondo di brume nordiche trasposte in Bretagna (“Pattes blanches”). Un altro scrittore, Jean Ferry, ha assecondato anche lui la moda e i dialoghi di “Manon” avrebbero potuto benissimo essere firmati da Aurenche e Bost: «Mi crede vergine e, da borghese, fa il professore di psicologia!». Dai giovani sceneggiatori non c’è da aspettarsi di meglio: danno semplicemente il cambio agli altri e si guardano bene dal rimuovere i tabù.
Jacques Sigurd, uno degli ultimi arrivati, fa coppia con Allégret. Insieme hanno offerto al cinema francese alcuni dei suoi capolavori più neri: “Dédée d’Anvers”, “Manèges”, “La via del rimorso”, “I miracoli non si ripetono”, “Amanti nemici”. Jacques Sigurd ha imparato molto velocemente il segreto e dev’essere dotato di un’ammirevole capacità di sintesi, perché le sue sceneggiature oscillano ingegnosamente tra Aurenche e Bost, e Prévert e Clouzot, il tutto leggermente ringiovanito. La religione non entra mai , ma il blasfema fa sempre timidamente una sua comparsa grazie a qualche figlia di Maria o a qualche suora che attraversano il campo nel momento in cui la loro presenza è più inattesa (“Manèges”, “La via del rimorso”).
La crudeltà con cui si mira a ‘remuer les tripes’, cioè a scandalizzare il ‘borghese’, trova posto in battute del tipo: «era vecchio, poteva crepare» (“Manèges”). In “La via del rimorso” Jane Marken invidia il benessere di Berck dovuto alla presenza dei tubercolotici: «i parenti vengono a trovarli e questo fa andar bene gli affari!» (Si pensi alla preghiera del Rettore in “Dio ha bisogno degli uomini”).
Roland Laudenbach, che sembrerebbe più dotato della maggior parte dei suoi colleghi, ha collaborato ai film più tipici di questo tipo: “L’ora della verità”, “Una signora perbene”, “La voce del silenzio”.
Robert Scipion è un valido uomo di lettere; ha scritto solo un libro: un libro di pastiche; segni particolari: la frequenza quotidiana dei caffè di Saint-Germain-des-Prés e l’amicizia di Marcel Pagliero che chiamano il Sartre del cinema, probabilmente perché i suoi film assomigliano agli articoli dei «Temps Modernes». Ecco alcune battute di “Gli amanti del fiume”, film populista i cui ‘eroi’ sono dei piloti di chiatte, come gli scaricatori erano quelli di “Un homme marche dans la ville”:

– Le mogli degli amici sono fatte per andarci a letto.
– Tu fai solo quello che ti conviene; per questo calpesteresti chiunque, è proprio vero.

In una sola bobina del film, verso la fine, in meno di dieci minuti si sentono le parole: «prostituta, puttana, baldracca e cazzata». È questo il realismo?

Si rimpiange Prévert…

Nel constatare l’uniformità e l’omogenea miseria delle sceneggiature di oggi, si cominciano a rimpiangere le sceneggiature di Prévert. Lui credeva al diavolo, dunque in Dio, e se la maggior parte dei suoi personaggi erano per suo solo capriccio oberati di tutti i peccati della creazione, c’era sempre posto per una coppia con cui, novelli Adamo ed Eva, la storia, terminato il film, avrebbe potuto ricominciare in maniera migliore.

Realismo psicologico, né reale, né psicologico…

Non ci sono più che sette o otto sceneggiatori che lavorano regolarmente per il cinema francese. Ognuno di questi sceneggiatori non ha che una storia da raccontare e siccome ciascuno aspira al successo dei ‘due grandi’, non è esagerato dire che i cento e più film francesi realizzati ogni anno raccontano la stessa storia: si tratta sempre di una vittima, di solito un cornuto. (Questo cornuto sarebbe l’unico personaggio simpatico del film se non fosse sempre incredibilmente grottesco: Blier-Vilbert ecc.). La doppiezza di chi gli sta vicino e l’odio che regna tra i membri della sua famiglia, portano l’«eroe» alla rovina; l’ingiustizia della vita, e, come colore locale, la cattiveria del mondo (i preti, le portinaie, i vicini, i passanti, i ricchi, i poveri, i soldati ecc.).
Provate a distrarvi, nelle lunghe serate invernali, cercando titoli di film francesi che non si adattino a questo quadro e, dato che ci siete, trovate fra questi film quelli dove nel dialogo non figuri questa frase, o un suo equivalente, pronunciata dalla coppia più abietta: «Sono sempre loro ad avere i soldi (o la fortuna, o l’amore, o la felicità), ah! però non è giusto».
Questa scuola che mira a fare del realismo, lo distrugge sempre nel momento stesso in cui finalmente lo afferra, preoccupata com’è di imprigionare gli individui in un mondo chiuso, barricatio da formule, giochi di parole e luoghi comuni, e non di lasciare che questi individui si mostrino quali sono, sotto ai nostri occhi.
L’artista non può dominare sempre la sua opera. Qualche volta deve essere Dio, qualche volta la sua creatura. Conosciamo quel lavoro moderno il cui protagonista, fisicamente normale quando si leva il sipario, si ritrova alla fine ‘cul-de-jatte’ cioè senza gambe, è la perdita successiva delle sue estremità che sottolinea i cambiamenti in atto. Strana epoca dove anche il più mediocre attore mancato usa il termine ‘kafkiano’ per qualificare le sue disavventure domestiche. Questa forma di cinema viene direttamente dalla letteratura moderna, mezzo-‘kafkiana’, mezzo-bovarysta!
In Francia non si gira più un film dove gli autori non credano di rifare Madame Bovary.
Per la prima volta nella letteratura francese, un autore adottava rispetto al suo soggetto un atteggiamento distaccato, esteriore e il soggetto diventava così come l’insetto osservato con il microscopio dell’entomologo. Ma se, all’inizio dell’opera, Flaubert aveva potuto dire: «Li trascinerò tutti nello stesso fango – perché è giusto» (frase che gli autori di oggi assumerebbero volentieri come loro motto), a cose fatte dovette dichiarare: «Madame Bovary sono io», e dubito che questi stessi autori possano riprendere questa frase nei riguardi di se stessi!

Regia, regista, testi…

L’oggetto di queste note è limitato all’esame di una certa forma di cinema dal solo punto di vista delle sceneggiature e degli sceneggiatori. Ma credo che convenga precisare che i registi sono e vogliono essere responsabili delle sceneggiature e dei dialoghi che illustrano.
Film di sceneggiatori, scrivevo sopra, e non saranno certo Aurenche e Bost che mi contraddiranno. Quando consegnano la loro sceneggiatura, il film è fatto; il regista è, ai loro occhi, il signore che mette le inquadrature… e, ahimè, è vero! Ho parlato della mania di aggiungere dovunque funerali. Eppure la morte viene sempre elusa in questi film. Ricordiamoci della splendida morte di Nana o di Emma Bovary in Renoir; in “La pastorale”, la morte non è che un esercizio dei truccatori e del capo operatore; paragonate un primo piano di Michèle Morgan morta in “La pastorale” con uno di Dominique Blanchard in “II segreto di Mayerling” o di Madeleine Sologne in “L’immortale leggenda”: è lo stesso viso! Tutto finisce dopo la morte.
Infine voglio citare questa dichiarazione di Delannoy che dedichiamo perfidamente agli sceneggiatori francesi:

Quando accade che autori di talento, sia per lucro, sia per debolezza, si lascino andare a ‘scrivere per il cinema’, lo fanno con la sensazione di abbassassi. Cedono ad un curioso impulso verso la mediocrità, preoccupati come sono di non compromettere il loro talento, e certi che, per scrivere di cinema, occorra farsi capire dal basso. (“La symphonie pastorale o L’amour du métter”, revue Verger, novembre 1947).

Devo subito denunciare un sofisma che non si mancherà di oppormi a guisa di argomento:

Questi dialoghi sono pronunciati da gente abietta ed è per meglio stigmatizzare la loro bassezza che attribuiamo loro questo linguaggio duro. È il nostro modo di essere moralisti.

A ciò rispondo: non è esatto dire che queste frasi vengono pronunciate dai personaggi più abietti. Certo, nei film ‘realistico-psicologici’ non ci sono che esseri vili, ma si ritiene tanto smisurata la superiorità degli autori rispetto ai loro personaggi che quei pochi che, per caso, non sono infami, risultano nella migliore delle ipotesi grotteschi.
E poi, conosco un piccolo gruppo di uomini in Francia che sarebbero incapaci di concepire personaggi abietti, che pronunciano frasi abiette. Sono alcuni registi la cui visione del mondo è valida almeno tanto quanto quella di Aurenche e Bost, Sigurd e Jeanson. Si tratta di Jean Renoir, Robert Bresson, Jean Cocteau, Jacques Becker, Abel Gance, Max Ophuls, Jacques Tati, Roger Leenhardt; eppure sono registi francesi e si dà il caso – curiosa coincidenza – che siano degli autori che spesso scrivono i loro dialoghi e alcuni di loro inventano da soli le storie che mettono in scena.

Mi si dirà anche…

Ma perché, – mi si dirà – perché non si potrebbe nutrire la stessa ammirazione per tutti i registi che si sforzano di operare all’interno di questa ‘tradition de la qualité’ di cui lei si prende gioco con tanta leggerezza? Perché non ammirare Yves Allégret come Becker, Jean Delannoy come Bresson, Claude Autant-Lara come Renoir?
Ebbene, io non posso credere alla coesistenza pacifica della ‘tradition de la qualité’ con un cinema d’autore.
In fondo Yves Allégret e Delannoy non sono che le caricature di Clouzot e di Bresson.
Non è un desiderio scandalistico che mi porta a svalutare un cinema peraltro tanto lodato. Resto convinto che l’esistenza esageratamente protratta del realismo psicologico sia la causa dell’incomprensione del pubblico per opere nuovissime, nuove nella concezione come “La carrozza d’oro”, “Casco d’oro” o addirittura “Les dames du Bois de Boulogne” e “Orfeo”.
Viva l’audacia, certo, ma occorre scoprirla dove c’è veramente. A conclusione di quest’anno 1953, se mi toccasse fare una sorta di bilancio delle audacie del cinema francese, non vi troverebbero posto né il vomito de “Gli orgogliosi”, né il rifiuto di Claude Laydu di prendere l’aspersorio in “Una signora perbene”, e neppure i rapporti omosessuali dei personaggi di “Vite vendute”, ma piuttosto il passo di Hulot, i soliloqui della cameriera di “La rue de l’Èstrapade”, la regia di “Carrozza d’oro”, la direzione degli attori in “Madame de”, e anche i tentativi di polivisione di Abel Gance. Lo avrete capito: queste sono audacie di uomini di cinema e non di sceneggiatori, di registi e non di letterati.
Considero ad esempio significativo lo scacco sperimentato dai più brillanti sceneggiatori e registi della ‘tradition de la qualité’ quando abbordano la commedia: Ferry-Clouzot: “Un marito per mia madre”, Sigurd-Boyer: “Tutte le strade portano a Roma”, Scipion-Pagliero: “La rose rouge”, Laudenbach-Delannoy: “La route Napoléon”, Aurenche-Bost-Autant-Lara: “Arriva fra’ Cristoforo” o volendo, “Occupati d’Amelia”.
Chiunque abbia provato un giorno a scrivere una sceneggiatura non potrebbe negare che la commedia è davvero il genere più difficile, quello che esige il massimo di lavoro, di talento e anche di umiltà.

Tutti borghesi…

Il tratto dominante del realismo psicologico è la sua volontà anti-borghese. Ma chi sono Aurenche e Bost, Sigurd, Jeanson, Autant-Lara, Allégret, se non borghesi, e chi sono i cinquantamila nuovi lettori creati da ogni film tratto da un romanzo, se non borghesi?
Qual è allora il valore di un cinema anti-borghese fatto da borghesi per borghesi? Gli operai, si sa, non apprezzano affatto questa forma di cinema anche quando mira ad avvicinarsi a loro. Si sono rifiutati di riconoscersi negli scaricatori di “Un homme marche dans la ville”, come nei piloti di chiatte di “Gli amanti del fiume”. Forse è vero che bisogna mandare i bambini sul pianerottolo per poter fare all’amore, ma quei genitori non amano molto sentirselo dire, soprattutto al cinema, anche se con ‘benevolenza’. Se il pubblico ama incanaglirsi sotto l’alibi della letteratura, ama farlo anche sotto l’alibi del sociale. È istruttivo analizzare la programmazione dei film a seconda dei quartieri parigini. Si scopre che il pubblico popolare preferiste magari i filmetti naïf stranieri, che gli mostrano ‘come dovrebbero essere’ glì uomini e non come Aurenche e Bost credono che siano.

Come ci si passa un buon indirizzo…

È sempre bene concludere: fa piacere a tutti. È significativo che i ‘grandi’ registi e i ‘grandi’ sceneggiatori abbiano fatto tutti per lungo tempo dei filmetti e che il talento che vi hanno messo non sia stato sufficiente a distinguerli dagli altri (che talento non hanno messo). È anche notevole che tutti siano arrivati alla qualità nello stesso tempo, come quando ci si passa un buon indirizzo. E poi, un produttore – e anche un regista – guadagna di più a fare “Quella certa età” che non “Le plombier amoureux”. I film ‘coraggiosi’ si sono rivelati molto redditizi. La prova: un Ralph Habib rinuncia dall’oggi al domani alla semi-pornografia, realizza “Le compagne della notte” e dichiara di rifarsi alla scuola di Cayatte. Ora, cosa impedisce agli André Tabet, ai Companeez, ai Jean Guitton, ai Pierre Véry, ai Jean Laviron, ai Ciampi e ai Grangier di fare, da un giorno all’altro, del cinema intellettuale, di adattare dei capolavori (ne resta ancora qualcuno) e, ovviamente, di aggiungere funerali un po’ dovunque?
A quel punto saremo fino al collo nella ‘tradition de qualité’ e il cinema francese, rivaleggiando in ‘realismo psicologico’, ‘asprezza’, ‘rigore’, ‘ambiguità’, sarà come un grande funerale che potrà uscire dallo studio di Billancourt per entrare direttamente nel cimitero che sembra esser stato messo apposta lì a fianco per passare più rapidamente dal produttore al becchino.
Solo che, a forza di ripetergli di identificarsi con gli ‘eroi’ dei film, il pubblico finirà proprio per crederlo, e il giorno in cui capirà che quel grassone cornuto pieno di disgrazie del quale è sollecitato ad aver compassione (un po’) e a ridere (molto) non è come pensava, suo cugino o il suo vicino di pianerottolo ma proprio lui, e che quella famiglia abietta è la sua famiglia, quella religione sbeffeggiata la sua religione, quel giorno egli rischierà forse di mostrarsi ingrato verso un cinema che si sarà tanto dato da fare per mostrargli la vita come la si vede da un quarto piano di Saint-Germain-des-Présf.
Certo, devo riconoscerlo, molta passione e anche molta prevenzione hanno influenzato questo esame deliberatamente pessimista che ho intrapreso a proposito di una certa tendenza del cinema francese. Mi si dice che questa famosa ‘scuola del realismo psicologico’ doveva esistere perché potessero a loro volta esistere “II diario di un curato di campagna”, “La carrozza d’oro”, “Casco d’oro”, “Le vacanze del signor Hulot”.
Ma i nostri autori, che volevano educare il pubblico, devono capire che lo hanno forse deviato dal percorso primario per avviarlo sulle strade più sottili della psicologia facendolo così passare nella classe sesta cara a Jouhandeau; e devono anche capire che non si può far ripetere eternamente la stessa classe.

François Truffaut, Cahiers du cinema n. 31, gennaio 1954. Pubblicato in Il piacere degli occhi, 1989.

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Commenti

13 risposte a: “Una certa tendenza del cinema francese”

  1. tonz ha scritto martedì 8 luglio 2008 17:13

    E dunque? Non capisco a cosa può servire un testo così lungo e così dettagliato su registi e film francesi sconosciutissimi, peraltro è un testo del 1954.

  2. Alberto Cassani ha scritto martedì 8 luglio 2008 17:32

    Beh, veramente questo è uno dei testi più importanti della storia della critica cinematografica…

    Il fatto che si riferisca (anche) a film e registi poco noti non conta poi molto, come non conta il fatto che abbia cinquant’anni, perché il discorso resta ancora attualissimo e adatto a qualunque cinematografia. Non è che dobbiamo fregarcene di quello che ha scritto Aristotele solo perché è roba vecchia e parlava del teatro greco…

    Quanti critici “moderni” sarebbero in grado di demolire in modo così preciso e circostanziato un’intera corrente cinematografica? E avere successo nell’opera di demolizione, anche.. O anche solo saper fare gli stessi ragionamenti cinematografici che fa qui Truffaut? Anzi: quanti avrebbero il coraggio di scrivere un articolo simile?
    Truffaut all’epoca aveva 32 anni e non aveva ancora diretto il suo primo cortometraggio. Qui ha scritto che il cinema francese dell’epoca gli faceva schifo ed è stato in grado di spiegare perfettamente perché. Poi si è messo a fare film e ha dimostrato che un cinema diverso era possibile.

  3. tonz ha scritto giovedì 10 luglio 2008 23:23

    L’ho riletto alla luce del tuo commento con attenzione e senza saltare diversi periodi: una demolizione scientifica con uno stile finemente limpido e letterario.
    Preso e letto, però, così senza una contestualizzazione, mi risulta difficile da apprezzare prima di “spaventarmi” per la quantità di nomi e titoli.
    Forse, ecco, una presentazione del testo per chi non ne conosce l’importanza storica, andava fatta.

    Mi piacerebbe leggere altri lavori critici di questa portata: sapresti dirmi dove potrei trovarli, quali le firme?

  4. Alberto Cassani ha scritto venerdì 11 luglio 2008 01:49

    Uhm… Curioso che il tuo commento fosse rimasto bloccato dall’antispam, mi sa che devo correggere qualcosa. Scusa il ritardo con cui è andato on-line.

    Comunque, forse sì: probabilmente avrei dovuto fare una presentazione del testo per dargli una contestualizzazione storica, ma ho dato per scontato che qualcuno che arriva in un blog dedicato alla critica e legge questo post in particolare già conosce il testo in questione anche se magari non l’ha mai letto. Anche perché, in effetti l’ho voluto ripostare soprattutto per la sua quasi totale indisponibilità libraria: questa versione è quella de “Il piacere degli occhi”, pubblicato da Marsilio nel 1988 e del tutto fuori catalogo. La versione recente dello stesso libro è stata pubblicata mi pare da Lindau, ma in un’edizione che lo accorpa ad un altro libro ed è venduta insieme a due DVD di film di Truffaut, quindi costosissima. Diciamo comunque che non mi sono sentito di fare io un’introduzione ad un articolo come questo. Sarebbe un po’ come avere Stefano Accorsi che scrive l’introduzione all'”Amleto” di Shakespeare…

    Ma in ogni caso, “Il piacere degli occhi” è il libro che io ho sempre sul comodino, e se lo trovi in biblioteca è assolutamente da leggere. E’ una raccolta di suoi scritti molto molto interessante.
    Altri testi simili a questo non è facile suggerirne. Diciamo che quelli contenuti in “La politica degli autori – Volume secondo” della Minimum Fax (quindi si gira sempre intorno a Truffaut) ci stanno.
    Invece una disamina critica dell’industria hollywoodiana (non solo del cinema in quanto tale, ma proprio del modo di produzione) l’ha fatta di recente David Mamet in “Bambi contro Godzilla. Teoria e pratica dell’industria cinematografica” (ancora Minimum Fax). Può interessare senz’altro.
    Poi segnalo tre libri di genere ancora diverso, tre confronti tra registi: “Il cinema secondo Hitchcock” di François Truffaut (ancora!), “Io, Orson Welles” di Peter Bogdanovich (Baldini Castoldi Dalai) e “Conversazioni con Billy Wilder” di Cameron Crowe (Adelphi). Qui ci sono due autori molto diversi che dialogano del loro modo di intendere e fare cinema, senza fuggire alle critiche e senza risparmiarne.
    Però, singoli articoli dello stesso genere di questo di Truffaut, soprattutto di facile reperibilità, su due piedi non me ne vengono in mente.

  5. Lessio ha scritto sabato 28 marzo 2009 15:47

    questo è davvero un articolo meraviglioso, mi permetto di contestualizzarlo, visto che me ne sto occupando per la mia tesi di laurea:

    l’arrivo di truffaut ai cahiers ha rappresentato una svolta nella storia della rivista: truffaut ha apportato un tono diretto e aggressivo, messo al servizio di una strategia di rottura e di conquista. il suo nome e quello dei “giovani turchi” (come venivano chiamati i collaboratori più combattivi) resterà nella storia come quello degli “hitchcock-hawksiani”. se nei primi anni i cahiers non hanno una linea editoriale ben precisa, con la nuova guardia la rivista ne trova una, fondata su una difesa senza tregua del cinema hollywoodiano, e su un attacco determinato al cinema francese dominante. tra il 1953 e il 1956 avviene una sorta di guerra civile all’interno della redazione: da un lato la vecchia guardia rappresentata da bazin, doniol-valcroze, pierre kast, joseph-marie lo duca), dall’altra i giovani truffaut, godard, rohmer e rivette. i “giovani turchi” non sono disposti a farsi trattare dai critici della generazione precedente con l’accondiscendenza che di solito si riserva agli scolaretti entusiasti, non ancora maturi e dai giudizi affrettati ed errati. l’apice di questa “guerra di conquista” è stato proprio la pubblicazione nel gennaio del 1954 di questo articolo di truffaut, coraggioso e come hai detto bene tu, sempre attuale.
    avercene di critici (e registi) come truffaut!

    un saluto, bel blog

  6. Alberto Cassani ha scritto sabato 28 marzo 2009 21:16

    Grazie dei complimenti.

    In realtà anche se nessuno oggi ha l’acutezza che aveva Truffaut, io credo che critici coraggiosi e quando serve duri come lui e gli altri dei Cahiers possano anche essercene, in giro. Quello che manca sono editori e direttori che gli lasciano la libertà necessaria per esprimersi secondo una certa linea.

    All’altro tuo commento rispondo con calma lunedì, che in questi giorni sono impegnato ad una fiera del fumetto.

  7. Nicola ha scritto lunedì 10 maggio 2010 19:37

    mi complimento con Lessio che sa,e pochi lo sanno, manca la citazione anche in wikipedia, che tra i fondatori dei Cahiers du cinema c’è il grande critico cinematografico J M Lo Duca ,

  8. constance germain ha scritto martedì 11 maggio 2010 15:39

    Perchè il testo francese è zeppo di errori? Forse è stato tradotto (male) dall’italiano? E’ la prima volta che vedo questo blog e non mi pare molto serio!!

  9. Alberto Cassani ha scritto venerdì 14 maggio 2010 16:42

    Constance, non capisco cosa intendi. Di quale testo francese stai parlando? Delle righe di Malraux che ci sono all’inizio? Sono convinto di averle riportate correttamente così come sono nel libro di Truffaut, però non conosco il testo originale per cui non so dire. Ad ogni modo, tra una settimana torno in Italia e ricontrollo nel libro.

  10. Alberto Cassani ha scritto venerdì 21 maggio 2010 17:11

    Allora, il testo nel libro (edizione Marsilio, 1992) è com’è riportato qui sopra, a parte la seconda parola che era “peut” invece che “petit” come avevo scritto (refuso sfuggito). Tutto il resto è come l’ha scritto Malraux e come l’ha riportato la Marsilio.

  11. s. ha scritto martedì 31 agosto 2010 02:54

    temo che constance non abbia torto
    questo il testo di malraux

    “On peut aimer que le sens du mot art soit: tenter de donner conscience à des hommes de la grandeur qu’ils ignorent entre eux”

  12. Alberto Cassani ha scritto mercoledì 1 settembre 2010 13:43

    Purtroppo mi scrivete sempre quando sono via e non ho il libro sotto mano. Ricontrollerò un’altra volta quando torno da Venezia, ma come ho scritto la versione riportata sopra è uguale a quella contenuta nel libro stampato da Marislio. A dir la verità non ho idea del perché abbiano tenuto in originale la citazione, e non ricordo chi abbia tradotto il libro, ma ribadisco un’altra volta l’identità tra il libro stampato e il testo riportato sopra.

  13. Alberto Cassani ha scritto giovedì 16 settembre 2010 19:56

    Ok, ho controllato per l’ennesima volta e la citazione riportata sopra è esattamente uguale a quella che apre l’articolo nella versione italiana del libro, tradotta da Melania Biancat e pubblicata da Marsilio nel 1989.
    A prescindere dal testo originale di Malraux, bisognerebbe trovare il testo di Truffaut in francese per capire se la citazione è sbagliata nella versione Marsilio o Truffaut ha volutamente cambiato le parole di Malraux. Purtroppo i siti che riportano l’articolo in francese non riportano la citazione iniziale, e alcuni neanche le tre righe di introduzione, quindi dobbiamo rimanere nel dubbio.

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