La fine dei critici?
Scritto da Alberto Cassani mercoledì 16 aprile 2008
Archiviato in Quelli che scrivono...
L’altro giorno stavo riflettendo sul triste dramma che i critici statunitensi stanno affrontando quando ho visto nella nostra sezione di intrattenimento, Calendar, la recensione di due videogiochi di baseball. Sapendo avrebbero interessato il mio figliolo di 9 anni – ed essendo sempre contento di fargli capire quanto il nostro giornale sia importante nella sua vita – gliele ho fatte vedere. Le recensioni erano chiarissime: uno dei due giochi, “MLB 2k8”, era pessimo, programmato talmente male e talmente difficile da giocare che il nostro recensore l’aveva definito “il Devil Rays dei videogiochi”, prendendo spunto dal perenne fanalino di coda dell’American League East.
Indovinate quale dei due giochi mio figlio vuole in regalo, per il suo compleanno?
Quando gli ho chiesto perché il brutto voto della nostra recensione non l’avesse convinto, mio figlio mi ha detto “il mio amico Jimmy ce l’ha e gli piace molto. Ci abbiamo giocato insieme una volta e sembra di giocare davvero a baseball, solo che usi dei pulsanti”.
Che tu stia parlando con un bambino di 9 anni che gioca nelle Little League, con uno studente universitario di 19 anni o con un appassionato di musica di 29, quando chiedi perché non si fida più dei critici per le sue scelte in materia di intrattenimento, la risposta sarà sempre qualcosa sul genere di “mi fido dei miei amici più di quanto mi fido del tizio che scrive le recensioni”.C’è stato un periodo in cui i critici erano gli arbitri della nostra cultura, i supremi interpreti di ogni discorso intellettuale. Quando era adolescente, desideroso di occuparmi delle arti, ritenevo leggere Pauline Kael, Frank Rich e Lester Bangs importante quanto vedere un film di Robert Altman o una commedia di David Mamet, o come ascoltare l’ultimo album di Elvis Costello. I critici davano all’arte un proprio contesto, ne spiegavano il significato e ci guidavano verso nuove scoperte.
Come ci ha mostrato la marea di notizie delle ultime settimane, quei giorni sono passati. Finiti. Scomparsi. Oggi i critici sono visti come dei dinosauri culturali in via di estinzione. E molta attenzione è stata data alla scomparsa dei critici cinematografici. Mercoledì scorso Sean P. Means del Salt Lake Tribune ha pubblicato una lista di critici cinematografici, 28 in totale, che hanno perso il lavoro o hanno deciso di lasciarlo negli ultimi due anni. La lista comprende firme importanti come David Ansen di Newsweek, Jack Mathews del New York Daily News e Michael Wilmington del Chicago Tribune.
I critici vengono ridimensionati in ogni redazione, si tratti di musica classica, danza, teatro o qualunque altra area artistica. Anche se si tratta chiaramente di una manovra economica – trovandosi davanti allo sgretolamento del proprio modello economico, molto quotidiani hanno semplicemente deciso di non potersi più permettere un’intera batteria di critici – è altrettanto chiaro che ci troviamo in un’epoca che ha un approccio al ruolo del critico molto diverso rispetto al passato.Ovviamente internet ha giocato un ruolo di primaria importanza in questo cambiamento. Ha portato ad una democratizzazione delle opinioni in cui un singolo blogger – come il famoso Matt Drudge – può avere la meglio sulle pachidermiche agenzie di stampa. Ogni volta che passo del tempo con dei giovani studenti, mi trovo di fronte ad un concetto ancora più intrigante. Anche se in materia di cinema e musica sono fortemente influenzati dalla reazione del loro gruppo di amici, in realtà ascoltano ancora i critici; i critici intesi come gruppo, non in quanto singole firme. L’era della singola voce critica sta arrivando alla fine – la gente preferisce la saggezza della comunità.
Avendo appena passato la serata con degli studenti del corso di giornalismo dell’Università di Southern California parlando dell’informazione riguardante il mondo dell’entertaiment, ho chiesto loro cosa ne pensassero del lavoro dei critici. Quasi tutti hanno risposto che quando vogliono leggere a proposito di un film visitano siti come Metacritic o Rotten Tomatoes, che offrono un’ampia rassegna del pensiero critico. Come ha detto uno di questi studenti, Victor Farfan, “mettono le recensioni tutte insieme in un unico posto, in modo da permetterti una rapida carrellata sulle opinioni di tutte le testate note e anche di alcune meno familiari”.
Gli altri studenti ammettono di dare poco peso all’opinione dei critici, considerandola come parte dell’insieme di tutte le informazioni che accompagna un qualunque prodotto d’intrattenimento. “Siamo scettici riguardo le cose che sono troppo pubblicizzate, sia da parte dei critici sia da parte degli uffici marketing – dice Courtney Lear – Personalmente mi fido di alcuni attori, cantanti o registi per via dei loro lavori precedenti. Gli Arcade Fire suonano a Hollywood? Il loro ultimo album m’ha fatto impazzire. Quando parte la vendita dei biglietti? Hanno tutta la mia fiducia”.Per una generazione che vive in Rete, anche il critico più eloquente è solo un tuono lontano, di rado ben evidenziato nel sito internet del suo giornale e spesso riluttante ad usare i blog come piattaforma per predicare il proprio vangelo. Anche tra gli studenti di giornalismo più capaci è difficile trovare qualcuno che sa fare il nome di qualche critico.
Naturalmente non è solo internet che sta piantando i chiodi nella bara dei critici. Quando si parla di cinema, nessuno ha saputo cancellare la credibilità dei critici meglio degli Studio di Hollywood. Le citazioni sulle locandine sono un’invenzione cinica e bara che ha avuto più importanza nella svalutazione dei critici di ogni incursione della Rete. La pubblicità cerca di far passare un pensiero nell’anticamera del cervello del possibile spettatore: “forse questo mucchio di spazzatura non è poi così brutto…”
Ovviamente, una volta che hai visto il film e ti sei reso conto di quanto è brutto, un nuovo pensiero ti passa nell’anticamera del cervello: “Non mi freghi più”. Avendoci fatti diventare tutti più cinici, gli Studio ci hanno incoraggiati a non fidarci più dei critici. A meno di non essere disposti di passare il nostro tempo a stilare una classifica dei critici (Earl Dittman di Wireless Magazine [scarso] contro A.O. Scott del New York Times [bravo]), la maggior parte degli spettatori ignorerà semplicemente le citazioni.
Ci sono ancora, ovviamente, un sacco di critici seri, ma gli Studio fanno del loro meglio per impedir loro di scrivere a proposito dei loro prodotti di punta. A People Magazine, ad esempio, la critica cinematografica Leah Rozen deve consegnare entro il lunedì le recensioni per il numero che arriva in edicola il venerdì. Anche se lei lavora per una rivista che sarebbe perfetta per pubblicizzare un film per famiglie come “Alla ricerca dell’isola di Nim“, la 20th Century Fox non ha fatto vedere il film a People e agli altri critici newyorchesi prima del mezzogiorno di giovedì.
“Gli Studio sanno quali sono le nostre scadenze – dice la Rozen – per cui devo pensare che sapessero che facendocelo vedere così tardi non avremmo potuto scriverne”.Ad essere sinceri, anche i media sono responsabili del crollo dell’autorità dei critici. Dozzine di critici cinematografici televisivi si sono trasformati in puttane pronte a dire qualunque cosa pur di avere il proprio nome in cima alle locandine dei film (un entusiasta Shawn Edwards di Fox Tv ha etichettato con un “Grandissimo!” l’orrendo “Drillbit Taylor“). I programmi di informazione spesso svalutano i propri critici di punta relegandoli a intervistare quei registi che vanno per la maggiore, permettendo così agli Studio di creare interesse attorno ai loro blockbuster estivi. E fin troppi quotidiani si sono spostati verso una costruzione di più facile lettura, creando così una mentalità troppo da “pollice su–pollice giù”. Come ha spiegato la Rozen “i caporedattori sono ormai talmente influenzati dal concetto di giornalismo di facile lettura che chiedono spesso per quale motivo i critici debbano scrivere così tanto se poi l’unica cosa che i lettori vogliono sapere è ‘Devo andare a vedere questo film o no?’”. La Rozen aggiunge che ogni volta che People affronta un restyling grafico, le immagini hanno sempre più spazio e il testo ne ha sempre di meno. “Mettiamola così – dice a proposito di uno dei film più apprezzati dell’anno scorso – ho recensito “La promessa dell’assassino” in solo due frasi”.
Il problema va oltre i film. Nella musica pop, specialmente nelle testate ai vertici della catena alimentare come Rolling Stone, i critici hanno l’antipatica abitudine di trattenere i colpi sui cantanti importanti. Come fa notare Bill Wyman in un divertente post sul suo sito, una lunga schiera di critici di Rolling Stone è finita fatta a pezzi nel tentativo di etichettare ogni nuovo album dei R.E.M. come un ritorno ai tempi gloriosi della band, anche se così facendo gli album che oggi vengono considerati delle delusioni sono quelli che all’epoca furono etichettati come dei grandi ritorni.
“Nell’industria giornalistica musicale, sei spesso scoraggiato dallo scrivere recensioni negative – mi ha detto Wyman – è considerato poco elegante dire che un sacco di musica pop è orrenda. Si presume tu non debba dire ai lettori quello che non vogliono sentirsi dire”.
Ma i critici migliori sono proprio quelli che hanno sempre fatto l’opposto. Come disse lo scomparso Kingsley Amis, “Se non puoi infastidire nessuno, che senso ha scrivere?”. Che i critici siano irritanti oppure dei maestri della divulgazione, le opinioni contano ancora. Ma nessuno è oggi rispettato solo per l’autorità dell’istituzione per cui scrive. Internet non è il nemico del pensiero critico, la terra dei mille blog è un medium strapieno di opinioni. La differenza è che il lettore può decidere quale opinione conta di più. È una differenza enorme, ma è ora che i critici – come anche gli artisti – capiscano di dover prestare più attenzione al loro pubblico.
Patrick Goldstein, Los Angeles Times, 8 Aprile 2008.
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7 risposte a: “La fine dei critici?”
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spesso le recensioni sono scritte in ginocchio sperando in commesse pubblicitarie: non puoi sputtanare il film che ti compra la quarta di copertina. a volte, ed è anche peggio, basta un gadget particolarmente apprezzato a salvare il film da una stroncatura. infine, molta gente che scrive sui giornali non sa di cosa parla.
non c’è dubbio che il mestiere sia cambiato ed è anche vero che musica e cinema sono delle arti che risentono così tanto dei gusti e della cultura di chi guarda e ascolta che un pensiero univoco su un film o un album è impossibile averlo. vorrei aggiungere, per fortuna
Delle recensioni in ginocchio avevamo già accennato in un altro post: la realtà è che un inserzionista compra uno spazio pubblicitario, non tutto il giornale. Se gli sponsor si sono convinti di avere zona franca sui contenuti del resto della rivista è perché i direttori gliel’hanno permesso, ma non dovrebbe essere così.
Io, però, trovo più curioso il servilismo dei quotidiani: nei quotidiani sono poche le inserzioni ad esempio cinematografiche, ma vogliono comunque compiacere i distributori in modo da poter avere un’intervista con questo o quel divo. E’ anche per questo che la critica sui mezzi di comunicazione tradizionali sta morendo, perché c’è troppo spazio al colore e poco al cinema vero e proprio.
Sono d’accordo che è giusto che si formi un pensiero complesso su di un film (o su u disco, o su quant’altro), ma a mio avviso è ancora più giusta un’altra cosa che Goldstein fa capire: sta crollando la credibilità delle testate importanti. Questo vuol dire che un critico non è più ritenuto bravo e autorevole solo perché scrive su questo o quel giornale, ma in base a quello che davvero scrive. Che mi sembra cosa buona e giusta, soprattutto perché c’è un sacco di gente che scrive senza sapere di cosa sta scrivendo. E mica solo per quanto riguarda il cinema…
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Questo vuol dire che un critico non è più ritenuto bravo e autorevole solo perché scrive su questo o quel giornale, ma in base a quello che davvero scrive. Che mi sembra cosa buona e giusta, soprattutto perché c’è un sacco di gente che scrive senza sapere di cosa sta scrivendo. E mica solo per quanto riguarda il cinema…
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Il problema però è che i critici ritenuti, a ragione, credibili al di là del giornale per cui scrivono e che possiedono un’onestà intellettuale tale per cui non sono disposti a vendere la propria opinione pur di restare nell’ambiente, in futuro (o forse il futuro era ieri) non troveranno più un giornale in cui farlo. E nel momento in cui questa categoria muore agli occhi dei tantissimi e ben poco scemi appassionati lettori sparsi per il mondo, il futuro della critica è solo internet. Le riviste assumeranno – hanno già assunto – uno status differente, molto più gossipparo e descrittivo, ed è per queste ragioni che la gente, forse, continuerà a comprarle, ma solo per queste.
Mah, non lo so. In realtà il mondo dell’editoria è in un momento di forte cambiamento, negli Stati Uniti molti quotidiani sono sull’orlo della chiusura o della trasformazione in portali via web. Questo, in teoria, dovrebbe portare al disfascio della parte alta della piramide dell’informazione e quindi ad una pluralizzazione dell’informazione, la quale a sua volta potrebbe permettere ai giornalisti bravi e seri di non avere più bisogno di essere associati ad un singolo giornale. Però qui bisogno vedere se un sito personale può essere una sufficiente fonte di guadagno economico…
Mah, non lo so. In realtà il mondo dell’editoria è in un momento di forte cambiamento, negli Stati Uniti molti quotidiani sono sull’orlo della chiusura o della trasformazione in portali via web. Questo, in teoria, dovrebbe portare al disfascio della parte alta della piramide dell’informazione e quindi ad una pluralizzazione dell’informazione, la quale a sua volta potrebbe permettere ai giornalisti bravi e seri di non avere più bisogno di essere associati ad un singolo giornale. Però qui bisogno vedere se un sito personale può essere una sufficiente fonte di guadagno economico…
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Eh, però lo vedi che il futuro di questo tipo di informazione è su Internet… Quella cartacea in generale, a poco a poco, più o meno velocemente verrà molto ridimensionata. E se non altro con internet ci sarà un’informazione più libera e obiettiva, meno inquinata dagli interessi delle varie testate. Non potrà essere altrimenti. Quello che ancora non ho ben chiaro è come faranno le testate importanti a fare utili diun certo tipo attraverso la pubblicazione sul web. Certamente ci sarà un drastico ridimensionamento delle redazioni…
vediamo: forse non tutto il male viene per nuocere. Ipoteticamente, l’ascesa delle recensioni da blog, dei critici più o meno dilettanti che scrivono nel Web potrebbe portare a una maggiore sincerità nei giudizi. Magari i giovani ascolteranno il parere del tale critico che trovano sul tale blog, e questi darà opinioni gratuite e spassionate.
Piuttosto che leggere recensioni prezzolate perché inserite in spazi compaerati, forse è meglio così. Quanto ai Grandi, spero solo che le discipline dello Spettacolo invadano scuole e Università, e che i miti della mia generazione in esse trovino di che farsi conoscere.
Cuccu’ssétte
I siti internet dei giornali sono già fonte di guadagni discreti se non buoni. I banner pubblicitari e magari i fimati promozionali dovrebbero portare non pochi soldi, uniti all’abbattimento dei costi visto che non ci sono più stampa e distribuzione. In generale, comunque, ho l’impressione che andrà a scomparira la stampa cartacea “generalista” ma non quella specializzata. La stampa in quanto tale non morirà.
E’ vero che internet si porta dietro un alone di libertà e onestà, ma nel momento in cui entrano in ballo i soldi – ossia, in questo caso, le grandi testate giornalistiche – si smette di avere totale libertà di espressione. Al di là del modo in cui si parla di cinema nei blog (perlomeno quelli italiani), non riesco a pensare che i prossimi nomi importanti della critica cinematografica usciranno da internet, perché il panorama attuale è piuttosto desolante.