Genesi di un’antologia
Scritto da Alberto Cassani lunedì 9 febbraio 2009
Archiviato in Quelli che scrivono...
Perché dodici, perché racconti e perché raminghi. I dodici racconti di questo libro sono stati scritti nel corso degli ultimi diciotto anni. Prima della loro forma attuale, cinque sono stati articoli di giornale e sceneggiature cinematografiche, e uno è stato un serial televisivo. Un altro lo raccontai quindici anni fa durante un’intervista registrata, e l’amico cui l’avevo raccontato poi lo trascrisse e lo pubblicò, e adesso l’ho riscritto a partire da quella versione. E’ stata una strana esperienza creativa che merita di essere spiegata, anche solo perché i bambini che da grandi vogliono diventare scrittori sappiano fin d’ora quanto è insaziabile e corrosivo il vizio di scrivere.
La prima idea mi venne all’inizio degli anni Settanta, a proposito di un sogno chiarificatore fatto dopo cinque anni che vivevo a Barcellona. Avevo sognato di assistere al mio funerale, a piedi, camminando in mezzo a un gruppo di amici vestiti a lutto stretto, ma in vena di bagordi. Sembravamo tutti felici di stare insieme. E io più di ogni altro, per via di quella grata occasione che mi offriva la morte di ritrovarmi con i miei amici dell’America latina, i più vecchi, i più amati, quelli che non vedevo da più tempo. Al termine della cerimonia, mentre cominciavano ad andarsene, io avevo tentato di seguirli, ma uno di loro mi aveva fatto notare con una severità risoluta che per me la festa era finita. “Sei l’unico che non può andarsene” mi aveva detto. Solo allora avevo capito che morire è non ritrovarsi mai più con gli amici.
Non so perché, quel sogno esemplare lo interpretai come una presa di coscienza della mia identità, e pensai che era un buon punto di avvio per scrivere sulle cose strane che succedono ai latinoamericani in Europa. Fu un’idea incoraggiante, perché poco prima avevo finito “L’autunno del patriarca”, che è stato il mio lavoro più arduo e arrischiato, e non sapevo come proseguire.
Per circa due anni presi appunti sugli argomenti che mi passavano per la testa senza ancora decidere cosa farne. Siccome non avevo in casa un blocco per appunti la sera in cui decisi di cominciare, i miei figli mi prestarono un quaderno da scuola. Erano loro che lo portavano negli zainetti di libri durante i nostri viaggi frequenti per timore che si perdesse. Arrivai ad avere sessantaquattro argomenti annotati con così tanti dettagli che mi mancava solo di scriverli. Fu a Città del Messico, al mio ritorno da Barcellona, nel 1974, che mi si chiarì che questo libro non doveva essere un romanzo, come mi era sembrato all’inizio, bensì una raccolta di racconti brevi, basati su fatti giornalistici ma redenti dalla loro condizione mortale grazie alle astuzie della poesia. Fino ad allora avevo scritto tre libri di racconti. Tuttavia, nessuno dei tre era concepito e risolto come un tutto, essendo ogni racconto un pezzo autonomo e occasionale. Sicché scrivere quei sessantaquattro poteva essere un’avventura affascinante se fossi riuscito a buttarli giù tutti di getto, e con un’unità interna di tono e di stile che li rendesse inseparabili nella memoria del lettore.
I primi due – “La traccia del tuo sangue sulla neve” e “L’estate felice della signora Forbes” – li scrissi nel 1976, e subito li pubblicai in supplementi letterari di vari paesi. Non mi presi neppure un giorno di riposo, ma a metà del terzo racconto, che era proprio quello del mio funerale, mi accorsi che stavo stancandomi più che se fosse stato un romanzo. Lo stesso mi accadde col quarto. A tal punto, che non ce la feci a finirli. Adesso so perché: lo sforzo di scrivere un racconto breve è intenso quanto cominciare un romanzo. Perché nel primo paragrafo di un romanzo bisogna definire tutto: struttura, tono, stile, ritmo, lunghezza, e talvolta persino il carattere di qualche personaggio. Il resto è il piacere di scrivere, il più intimo e solitario che si possa immaginare, e se uno non rimane a correggere il libro per il resto della vita è perché lo stesso rigore di ferro di cui c’è bisogno per cominciarlo si impone per finirlo. Il racconto, invece, non ha inizio né fine: viene o non viene. E se non viene, l’esperienza propria e altrui insegnano che quasi sempre è più salutare ricominciarlo per un’altra via, o buttarlo nella spazzatura. Qualcuno che non ricordo l’ha detto bene con una frase consolante: “Un buon scrittore lo si apprezza meglio da quanto straccia che da quanto pubblica”. E’ vero che non ho stracciato i brogliacci e gli appunti, ma ho fatto di peggio: li ho spinti nell’oblio. Ricordo di avere tenuto il quaderno sulla mia scrivania di Città del Messico, naufrago in una burrasca di fogli, fino al 1978. Un giorno, cercando qualcos’altro, mi accorsi che da tempo l’avevo perso di vista. Non me ne importò. Ma quando mi convinsi che davvero non era sul tavolo ebbi una crisi di panico. Non rimase in casa un angolo che non fosse stato setacciato a fondo. Spostammo i mobili, smontammo la biblioteca per essere sicuri che non fosse caduto dietro i libri, e sottoponemmo domestici e amici a inquisizioni imperdonabili. Non ce n’era traccia. L’unica spiegazione possibile – o plausibile? – è che in qualcuno dei tanti massacri di carte che faccio spesso il quaderno fosse finito nella spazzatura.
La mia reazione mi stupì: gli argomenti che avevo dimenticato per quasi quattro anni si erano trasformati in una questione d’onore. Cercando di recuperarli a qualsiasi prezzo, in una fatica ardua quanto scriverli, riuscii a ricostruire gli appunti di trenta di loro. Siccome lo stesso sforzo di ricordarli mi era servito da purga, eliminai spietatamente quelli che mi sembrarono insalvabili, e ne rimasero diciotto. Questa volta mi animava la risoluzione di continuare a scriverli senza interruzioni, ma ben presto mi resi conto che non mi entusiasmavano più. Comunque, al contrario di quanto avevo sempre consigliato ai nuovi scrittori, non li buttai nella spazzatura ma di nuovo li archiviai. Non si può mai sapere. Quando cominciai “Cronaca di una morte annunciata”, nel 1979, mi accorsi che nelle pause fra i due libri avevo perso l’abitudine di scrivere e mi era sempre più difficile ricominciare. Per questo, fra l’ottobre del 1980 e il marzo del 1984, mi imposi di scrivere un articolo ogni settimana su giornali di diversi paesi, come disciplina per mantenermi il polso caldo. Allora mi venne da pensare che il mio conflitto con gli appunti del quaderno era sempre un problema di generi letterari, e che in realtà non dovevano essere racconti ma articoli di giornale. Solo che dopo avere pubblicato cinque articoli presi dal quaderno, di nuovo cambiai parere: andavano meglio per il cinema. Fu così che ne vennero fuori cinque film e un serial televisivo.
Quel che non avevo mai previsto fu che il lavoro per i giornali e per il cinema mi avrebbe fatto cambiare certe idee sui racconti, al punto che scrivendoli adesso nella loro forma conclusiva ho dovuto stare attento a separare con le pinze le mie idee da quelle inserite dai registi durante la scrittura delle sceneggiature. Inoltre, la collaborazione simultanea con cinque creatori diversi mi ha suggerito un altro metodo per scrivere i racconti: ne cominciavo uno quando avevo tempo libero, lo mettevo da parte quando mi sentivo stanco, o quando spuntava un progetto imprevisto, e poi ne cominciavo un altro. In poco più di un anno, sei dei diciotto argomenti sono finiti nel cestino della cartaccia, e fra questi quello del mio funerale, non essendo mai riuscito a far sì che fosse una gazzarra come quella del sogno. I racconti rimanenti, invece, sono parsi prendere fiato per una lunga vita.
Sono i dodici di questo libro. Nel settembre scorso erano pronti per essere stampati dopo altri due anni di lavoro intermittente. E così sarebbe finito il loro incessante andar raminghi fra il tavolo e il cestino della cartaccia, solo che all’ultimo momento mi ha preso un dubbio finale. Visto che le diverse città d’Europa in cui si svolgono i racconti le avevo descritte a memoria e nella distanza, ho voluto controllare la fedeltà dei miei ricordi quasi vent’anni dopo, e ho intrapreso un rapido viaggio di ricognizione a Barcellona, a Ginevra, a Roma e a Parigi.
Nessuna di queste città aveva più nulla a che vedere con i miei ricordi. Tutte, come tutta l’Europa attuale, erano rarefatte da un capovolgimento stupefacente: i ricordi reali mi sembravano fantasmi della memoria, mentre i ricordi falsi erano così convincenti che avevano soppiantato la realtà. Sicché mi era impossibile distinguere la linea divisoria fra la delusione e la nostalgia. E’ stata la soluzione decisiva. Finalmente avevo trovato quel che più mi mancava per terminare il libro, e che solo il trascorrere degli anni poteva fornirmi: una prospettiva nel tempo.
Al mio ritorno da quel viaggio fortunoso ho riscritto ancora una volta tutti i racconti fin dall’inizio in otto mesi febbrili durante i quali non ho avuto bisogno di domandarmi dove finiva la vita e dove cominciava l’immaginazione, perché mi sorreggeva il sospetto che forse non era vero nulla di quanto avevo vissuto vent’anni prima in Europa. La scrittura è allora divenuta così fluida che a tratti mi sentivo scrivere per il puro piacere di narrare, che è forse la condizione umana che più somiglia alla levitazione. Inoltre, lavorando a tutti i racconti al contempo e saltando dall’uno all’altro in piena libertà, ho ottenuto una visione panoramica che mi ha evitato la stanchezza degli inizi successivi, e mi ha aiutato a eliminare ridondanze oziose e contraddizioni mortali. Credo di avere così ottenuto il libro di racconti più vicino a quello che ho sempre voluto scrivere. Ed eccolo qui, pronto per essere portato sul tavolo dopo tanti giri a destra e a manca lottando per sopravvivere alle perversità dell’incertezza. Tutti i racconti, tranne i primi due, sono stati ultimati al contempo, e ognuno reca la data in cui l’ho cominciato. L’ordine in cui compaiono in questa edizione è quello che avevano nel quaderno di appunti.
Ho sempre creduto che ogni versione di un racconto sia migliore della precedente. Come sapere allora quale deve essere l’ultima? E’ un segreto del mestiere che non obbedisce alle leggi dell’intelligenza ma alla magia degli istinti, così come la cuoca sa quando la minestra è pronta. Comunque, per ogni evenienza, non li rileggerò, come non ho mai riletto nessuno dei miei libri per timore di pentirmi. Chi li leggerà saprà cosa farne. Per fortuna, nel caso di questi dodici racconti raminghi, finire nel cestino della cartaccia deve essere come il sollievo di tornare a casa.
Cartagena de Indias, aprile 1992.
Gabriel Garcia Marquez, Premessa a “12 racconti raminghi” (Mondadori, 2005).
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