Dubbi leciti o pensieri maligni?

Scritto da Alberto Cassani giovedì 10 aprile 2008 
Archiviato in Cinema d'attualità, Quelli che scrivono...

Juno, la delicata e minutissima Ellen Page, ha sedici anni e quel modo tutto suo, un po’ ribelle, di vestirsi: maglioncini penduli fatti a mano, righe e quadretti, sneakers, leggings e jeans sormontati dalla gonnellina a pieghe. Quando cammina per la strada a testa bassa, nella sua piccolezza tosta, pare quasi un cartoon e difatti proprio cosi inizia il film, con la Giunone in miniatura che diventa un disegno.
Allegro, sfrontato, con tanta bella musica, il film di Reitman è diventato un fenomeno, catturando dal nulla, grazie al passa parola, incassi da sequel. Gran parte del merito va ascritto proprio alla deliziosa Page, così diversa dagli standard hollywoodiani, il resto alla storia piccola, tutta quotidiana, ma scritta con consapevolezza e anticonformismo da Diablo Cody, ex spogliarellista e adesso premio Oscar.
In poche parole, la ragazzina Juno scopre il sesso con il timido (ma non bastardo) compagno di scuola, un pennellone che ha come unico interesse la gang di amici. Dopo l’esperimento erotico, lei scopre di essere incinta e la soluzione più ovvia alla sua età sembrerebbe abortire, ma quando entra in ambulatorio si accorge che l’atmosfera non le piace e decide di tenersi il bimbo per affidarlo a una coppia subito dopo il parto. La parte migliore del film è proprio l’incontro con la coppia di aspiranti genitori: lei è Jennifer Garner, borghesuccia e perfettina, lui è il bel Jason Bateman, muscoloso quarantenne liberal. L’apparenza inganna: la bella coppia scoppierà e la moglie perfettina si dimostrerà la più vera e intensa. Di più non si può dire, ma il neonato vedrà comunque la luce in un mondo colorato.
Ellen Page, lo dicevamo, è un’apparizione straordinaria per energia, vitalità, verità. E “Juno” è un bel film che racconta semplicemente la libera scelta di una ragazzina-donna che non accetta la logica semplicistica dell’interruzione di gravidanza, ma neppure il ricatto dell’istinto materno a tutti i costi. Un tema che ossessiona, va detto, il cinema americano di oggi, da “Waitress” a “Molto incinta” e tutto un fiorire di pancioni inattesi e nessuna che pensi ad abortire.
Una nuova sensibilità, da non confondere con posizioni ideologiche. E infatti, a partire dalla splendida famiglia, così normale, di “Juno”, non c’è un solo personaggio in questo film che non sia pieno di dubbi eppure tollerante, affettuoso eppure incerto, aperto all’esistenza eppure mai tentato da cupe battaglie fondamentaliste per la Vita. Un bellissimo film scritto da una donna che sa. E, naturalmente, si vede e si sente.

Piera Detassis, Ciak, Aprile 2008.

Piera Detassis fa parte del comitato che organizza la Festa del Cinema di Roma. “Juno” è stato presentato alla Festa del Cinema di Roma 2007, dove ha vinto il primo premio del concorso “Cinema 2007”.

Ci sono punti di convergenza tra il mondo dell’arte e quello dell’usura, tra una Torino glaciale e una Svizzera affarista, tra un mancato padre e un figlio che cerca la propria identità? Il secondo film di Paolo Franchi, che aveva colpito tutti con la pellicola d’esordio “La spettatrice”, è incentrato su questi temi. È invece molto secondaria la scena di sesso che ha per protagonista Elio Germano che è stata chiacchierata molto prima di essere vista, e che alla fine si è rivelata un boomerang comunicativo per il film. Ma il rigore della fotografia, delle scene e delle inquadrature getta una luce non italiana ma europea sull’intera storia, e nella vicenda raccontata ci sono spunti per una fenomenologia del racconto che ha pochi paragoni possibili nel cinema italiano di oggi.
Come in un sottile gioco al massacro, siamo trascinati proprio come i protagonisti del film nel baratro che sottende molte cose della normalità quotidiana. Paolo Franchi ha più volte dichiarato di apprezzare il cinema di Michael Haneke, il regista austriaco che si è fatto conoscere in tutto il mondo per il freddo rigore dei suoi mostri. Qui i mostri, forse, non sono neanche tali: proprio come gli spietati banchieri che praticano senza esitazioni l’usura nei confronti dei propri clienti. Anche per essere mostri, infatti, ci vuole una dignità.

Steve Della Casa, FilmTv, 6 aprile 2008.

Steve Della Casa è il presidente della Film Commission Torino Piemonte. “Nessuna qualità agli eroi” è stato realizzato con il sostegno della Film Commission Torino Piemonte.

Si presume che se un Festival accetta di presentare un film, è perché i suoi organizzatori lo ritengono valido. E si presume che una Film Commission non partecipi ad un film che possa dimostrarsi pubblicità negativa per la località dov’è girato. Però è lecito chiedersi, visto che in nessuna commissione decide una persona sola, se qualcuno della commissione si trovasse a dover recensire un film approvato dalla commissione ma che a lui/lei non è piaciuto, scriverebbe una recensione negativa o difenderebbe l’operato della commissione di cui fa parte?
Potranno essere anche solo dei pensieri maligni, ma non c’era proprio nessun altro che poteva scrivere queste recensioni, nelle due redazioni?

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Commenti

5 risposte a: “Dubbi leciti o pensieri maligni?”

  1. andrea bazin ha scritto sabato 12 aprile 2008 11:47

    e bravo Alberto! sottoscrivo in pieno. Detassis dopo la Festa di Roma 2006 firmò l’apertura di Ciak sul successo della sezione Première della quale è direttrice. Del resto la maggior parte delle volte i lettori non hanno le conoscenze e gli strumenti per collegare le cose e capire i meccanismi (spesso neppure gli “addetti ai lavori” li colgono); a festival e uffici stampa va bene (anzi meglio!) così; gli altri giornalisti non possono dire nulla perché hanno i loro piccoli conflitti d’interesse da difendere oppure perché rischiano di perdere le collaborazioni. Così vanno il giornalismo e il cinema in Italia.

  2. Alberto Cassani ha scritto sabato 12 aprile 2008 12:54

    Penso anch’io che la stragrande maggioranza dei lettori non si renda conto di queste cose, in particolare – in questo caso – per quanto riguarda Della Casa e la Film Commission.
    Però è vero che i conflitti d’interesse si sprecano, nel nostro ambiente. Tanto per rimanere su queste due testate, Antonello Catacchio scrive su Ciak ed è sposato con una delle socie del più importante ufficio stampa cinematografico di Milano. Pier Maria Bocchi ha fatto parte per anni dell’organizzazione del Far East Festival di Udine; l’anno scorso lui non ha collaborato alla manifestazione e guarda caso la settimana prima dell’inizio scrisse un editoriale su FilmTv dicendo che il cinema orientale era morto…

    Certo, il lettore di queste cose non se ne accorge, ma un minimo di decenza (e professionalità) da parte di chi dirige i giornali dovrebbe esserci…

  3. Alberto Cassani ha scritto venerdì 3 ottobre 2008 17:28

    Il commento qui sopra recitava originariamente “Antonello Catacchio è sposato con la proprietaria del più impartante [sic] ufficio stampa cinematografico di Milano”. Questa mattina la signora in questione mi ha precisato che lei non è la proprietaria dell’ufficio, ma che si tratta di una società di più persone con le stesse responsabilità e la stessa autorità. Mi scuso per l’errore, particolarmente pacchiano per via del fatto che io questa cosa la sapevo già ma me l’ero completamente dimenticata.

    Detto questo, voglio però precisare una cosa che forse agli addetti ai lavori sfugge. E’ chiaro che, ad esempio, Della Casa non si occupa solo dei film cui in qualche modo partecipa tramite la Film Commission, così come Catacchio non scrive solamente dei film su cui lavora la moglie, e certamente quest’ultimo non ne scrive necessariamente bene, però se le mogli di Catacchio e Della Casa fossero delle attrici tutti troverebbero normale che i direttori dei loro giornali facciano recensire i loro film da qualcun altro, perché sicuramente li farebbero recensire da qualcun altro.
    Dal punto di vista professionale queste situazioni di conflitto di interessi minano pesantemente la credibilità di chi scrive, che ci siano buone intenzioni o meno. E’ impossibile convincere il lettore che nella recensione non si sono presi in considerazione i rapporti personali, anche se davvero non li si è presi in considerazione. Ma questo è un problema che, evidentemente, i direttori e i giornalisti affrontano solo se è ovvio che i lettori sono a conoscenza di questi rapporti personali.
    Il conflitto di interessi non è una cosa aleatoria, non è una cosa astratta: il conflitto di interessi è una cosa che esiste, o che non esiste. Il punto non è volerlo sfruttare o cercare di non sfruttarlo, non è cercare di ignorarlo: è evitarlo.

  4. Tommaso ha scritto domenica 5 ottobre 2008 13:23

    Come avevo scritto sulla pagina di Facebook,

    Fatto salvo il principio generale su cui chiami l’attenzione, credo che quei due casi siano diversi e che sia maggiormente condivisibile selezionare un film per un festival e successivamente scriverne bene piuttosto che scriverne bene essendo a capo della film commission che l’ha realizzato. C’è un diverso rapporto di causalità, e sarebbe uno scrupolo apprezzabile da parte di Della Casa l’astenersi dalla scrittura, mentre per la Detassis trovo sia più comprensibile, e forse inevitabile per certi versi, incaricarsi di scrivere di un film che lei stessa ha selezionato per un festival, specialmente a distanza di mesi.

    Tu mi rispondi giustamente che su FilmTV chi è “coinvolto” nelle selezioni di film si astiene dai giudizi, ed è giusto (lo fa anche Duellanti), sono d’accordo con te; è, se non altro, una forma di eleganza dovuta. La mia osservazione non si riferiva ai valori assoluti di questi due casi, ma alla loro relazione interna: sotto questo aspetto, secondo me bisogna distinguerli. Poi siamo d’accordo che andrebbero evitati entrambi. Per quanto riguarda la tua ipotesi di un vincitore diverso e della faccia con cui fai una recensione più entusiasta di Juno, beh a me, sempre se parliamo di un sistema teorico, mi sembra uno scenario anche molto proficuo. Chi si occupa di selezionare è (dovrebbe essere) indipendente dalla giuria, e trovo anche sano che a distanza di mesi quella persona si trovi a spiegare perchè lei ha preferito un film diverso. La trovo una dialettica interessante, questo non tenendo conto dell’imbarazzante sovrapposizione di ruoli.

  5. Alberto Cassani ha scritto lunedì 6 ottobre 2008 13:26

    Sì, ovviamente i due casi in oggetto sono sostanzialmente diversi, per quanto entrambi esecrabili. Esagerando un po’, in un caso abbiamo sostanzialmente un coproduttore che pubblicizza il proprio film, nell’altro abbiamo un organizzatore di festival che fa propaganda a favore della propria manifestazione.

    Per quanto riguarda il caso Detassis, è vero che il comitato di selezione è indipendente dalla giuria, ma dichiarare la propria preferenza per questo o quel film vuol dire squalificare il lavoro della giuria stessa, e la credibilità di tutto il Festival, se le decisioni non coincidono. Sarebbe come se Jonnie To si lamentasse pubblicamente della selezione ufficiale dell’ultimo Festival di Venezia. O come se Marco Mueller dicesse che c’erano in concorso film cinesi più belli di “The Wrestler”. O come se i selezionatori di un festival dicessero “questo film non ci piaceva, ma l’abbiamo messo in concorso perché dovevamo fare numero”.
    E’ una questione di rispetto per il lavoro degli altri, siano essi giurati o cineasti. Evitare il conflitto di interessi, invece, è una questione di rispetto per i lettori.

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