Roger Ebert e l’età oscura della critica

Scritto da Alberto Cassani mercoledì 16 settembre 2009 
Archiviato in Quelli che scrivono...

Rogert Ebert è stato il primo critico cinematografico a vincere il Premio Pulitzer, nel 1975, prima di essere affiancato nell’impresa da Stephen Hunter nel 2003 e Joe Morgenstern nel 2005. Critico del Chicago Sun-Times dal 1967, ha forse raggiunto fama prima nazionale e poi mondiale grazie al programma televisivo At the movies, che lo vedeva recensire i film in uscita negli Stati Uniti in compagnia del critico del Chicago Tribune Gene Siskel. Alla morte di quest’ultimo nel 1999, Ebert è stato affiancato in studio da Richard Roeper, ma nel 2006 Ebert ha dovuto abbandonare la trasmissione perché l’ultima operazione cui è stato sottoposto a causa di un cancro alla tiroide l’ha lasciato praticamente afono.
Una delle particolarità delle recensioni scritte da Ebert è il fatto di partire spesso da un’esperienza personale per poi inserire nel quadro il film. Che è in pratica quello che fanno tutti i blogger. Quello che però differenzia Ebert dai blogger di tutto il mondo, oltre allo stile di scrittura sempre molto brillante, è la capacità di inserire il film in un contesto – non solo cinematografico – più ampio e fare quindi critica cinematografica vera e propria invece di limitarsi ad analizzare la propria esperienza di visione. Che è invece quello che si limitano a fare quasi tutti i blogger, e anche molti critici di poco conto.
In più, Ebert non si è mai fatto problemi a intavolare dei botta e risposta con autori cinematografici e colleghi critici dalle colonne del suo giornale. Che è più o meno quello che fanno tutti i blogger attraverso i commenti ai loro post. È diventata famosa, ad esempio, la diatriba che l’ha visto visto opposto al regista di The Brown Bunny Vincent Gallo. Dopo che Ebert aveva etichettato The Brown Bunny come «il peggior film della storia del Festival di Cannes», l’offesissimo Gallo ha definito il critico dell’Illinois «un grasso maiale con il fisico da mercante di schiavi». Con la semplicità che lo contraddistingue, Ebert ha allora parafrasato Churchill rispondendo «un giorno sarò alto e magro, ma Vincent Gallo sarà per sempre il regista di The Brown Bunny».
Era abbastanza logico, viste le premesse, che Roger Ebert fosse uno dei giornalisti cui i quotidiani statunitensi affidano un blog professionale per provare a rallentare la fuga di lettori che ne sta minando la stabilità finanziaria. Ed era ovvio, viste le premesse, che Ebert avrebbe messo in piedi un blog interessante e divertente da leggere, che lo vede interagire molto con i suoi lettori e riflettere spesso sul cinema e sul lavoro di critico cinematografico. Quella che segue è la traduzione di un suo post datato 6 agosto 2009, a proposito proprio della figura del critico all’interno nel mondo moderno.

Il ritorno del Medio Evo

Due cose apparentemente scollegate tra loro sono apparse a due giorni di distanza l’una dall’altra sulle pagine del Los Angeles Times, e confermano la mia paura che l’abitudine di andare al cinema negli Stati Uniti sta entrando nel Medio Evo. La prima cosa era una frase di un post di Patrick Goldstein: «I critici cinematografici sono nella stessa barca dei conduttori di telegiornali, il loro pubblico di riferimento ha 50 e rotti anni, e diventa più vecchio di giorno in giorno. Potreste assumere Jessica Alba per condurre il telegiornale – o farle recensire G.I. Joe, se è per questo – e gli spettatori più giovani se ne fregherebbero ugualmente». L’altra era un articolo di John Horn secondo cui, nonostante gli ottimi risultati al botteghino di The Hurt Locker, «gli spettatori più giovani non affollano le sale dove lo si programma, cosa che può limitarne notevolmente i risultati».
L’implicazione ovvia è che gli spettatori più giovani se ne fregano delle recensioni e non hanno potuto sapere che The Hurt Locker è il miglior film statunitense dell’estate. Ma c’è un’implicazione anche peggiore: il passaparola non sta aiutando il film con gli spettatori più giovani. Sono decenni che secondo il vangelo di Hollywood la pubblicità può aiutare un film nel suo week-end di apertura ma il passaparola è cruciale nelle settimane successive. E questa è stata la strategia della Summit Entertainment con The Hurt Locker, che è stato inizialmente distribuito in poche copie per poi aumentare costantemente il numero di città in cui è programmato, diventando così un vero successo pur senza mai “vincere” un week-end o avere una campagna pubblicitaria esagerata.
Di sicuro, molti di quelli che hanno visto The Hurt Locker sono diventati convinti avvocati a sua difesa, ma apparentemente gli spettatori più giovani che l’hanno visto non sono riusciti a convincere i loro amici. Mentre il successo del film continua ad aumentare di pari passo con l’aumento progressivo delle sale che lo programmano, la maggioranza dei più giovani stanno perdendo questo treno. E perché? Forse perché non si preoccupano delle recensioni. In più, oppongono resistenza a qualunque scelta non sia condivisa dal gruppo. Hanno  seguito la massa andando a vedere Transformers 2 e adesso si stanno mettendo d’accordo per andare a vedere G.I. Joe. Qualcuno potrebbe anche aver sentito parlare di The Hurt Locker, ma semplicemente non avere il coraggio di proporre una scelta che esce dal pensare comune del gruppo.

Ovviamente ci sono un sacco di adolescenti che cercano e apprezzano i buoni film, li sento spesso nei commenti al mio blog. E sono sinceri nei confronti dei loro coetanei. Se esprimono un gusto anticonformista vengono etichettati come strani, come sfigati. Le persone con cui escono non hanno alcun interesse a compiere scelte cinematografiche anticonvenzionali, e li guardano male se esprimono disinteresse nei confronti del blockbuster di turno. Persino alcuni dei loro insegnanti, mi scrivono, li criticano per «il parlare sempre di film che nessuno ha mai sentito». Se siete tra quelli che leggono i commenti ai miei post sapete di chi sto parlando, compresa “A Kid”, che scrive talmente bene che se lei stessa non avesse rivelato la sua età (ha appena compiuto 13 anni) avremmo pensato si trattasse di una colta persona adulta.
Se cito il cliché degli Stati Uniti che cadono a pezzi per colpa dell’ignoranza, è solo perché non c’è modo di evitarlo. E questa decadenza è ancora più pronunciata tra gli statunitensi più giovani. Non ha niente a che vedere con l’educazione superiore o con l’ammontare degli stipendi, dipende dalla mancanza di curiosità e, in molti casi, da un sistema scolastico primario e secondario criminalmente inutile. Fino a qualche decennio fa, tutti quelli che ottenevano un diploma di scuola superiore leggevano i quotidiani. Oggi il problema non è se li leggono o meno, ma se sono in grado di leggerli.

Questa tendenza coincide con l’efficacia sempre maggiore delle titaniche campagne pubblicitarie che impongono al cinema quei blockbuster pieni di effetti speciali che a loro volta sono molto spesso dei veicoli di promozione per i videogiochi. Nessun ragionamento può prevalere, i mass media sono al servizio del marketing. Quasi ogni singolo secondo della copertura televisiva dedicata al cinema è in realtà una malcelata pubblicità. Le stelle del cinema che vanno ospiti ai talk show o nei programmi di informazione quasi sempre ci vanno perché hanno un film in uscita. La satira, tradizionalmente presente in luoghi come Mad o il Saturday Night Live, oggi è soffocata dalle chiacchiere di gossip. È stato Mad che mi ha portato a pensare come un critico e ad analizzare la cultura popolare.
Solitamente nessuna opinione critica – nessuna opinione in assoluto – è espressa dai conduttori di questi programmi. La formula è rigida:
1 – «Grazie per essere con noi», come se fosse una telefonata ad un servizio sociale;
2 – «So che tu interpreti… (inserire la descrizione del ruolo)»;
3 – «Com’è stato lavorare con… (inserire nome)?»
4 – «Pensi che questo film (anche se è una commedia) trasmetta un messaggio positivo?»
5 – «Progetti per il futuro?»
La formula è interrotta da una clip tratta dal film e qualche commento divertente dell’ospite, preparato e discusso in anticipo e introdotto da una frase predeterminata del conduttore.
Mi piacerebbe vedere anche solo una volta un conduttore televisivo dire «facciamo un patto: io mando in onda gratuitamente un messaggio pubblicitario del tuo nuovo film, ma in cambio ti faccio una domanda che non sia stata preventivamente approvata dal tuo responsabile della comunicazione, e tu mi rispondi in maniera sincera». Potrebbe venir fuori un bello spettacolo televisivo, come di solito succedeva in passato. Invece, anche persone intelligenti come Jon Stewart e Paul Giamatti mettono semplicemente in scena la loro pantomima dell’ospitata. Il nuovo film di Giamatti racconta di un uomo che viene separato dalla sua anima e scopre che assomiglia ad un cece. Per quale motivo Stewart non gli ha potuto chiedere «Credi che noi abbiamo un’anima?». Giamatti avrebbe potuto rispondergli «Credi che i ceci vadano in Paradiso?».
Avendo avuto successo nell’opera di addomesticamento dei media, i dirigenti dell’ufficio marketing degli Studio sono comprensibilmente riluttanti a correre rischi riguardo la promozione che fanno. Alcune stelle del cinema potrebbero andare in diretta e dire… be’, qualunque cosa! Io ho iniziato a fare interviste in un periodo in cui gli intervistati parlavano al giornalista senza avere a fianco il loro responsabile della comunicazione. Lee Marvin, Robert Mitchum, Shirley MacLaine, Charles Bronson, Jeanne Moreau, Sidney Poitier, Kirk Douglas, John Wayne, Sarah Miles, Oliver Reed, Michael Caine… avrebbero parlato di tutto. Ma oggi anche la persona più intelligente ha al collo un guinzaglio corto.

Ma neanche i film stessi sono lasciati liberi. La decisione della Paramount di non organizzare proiezioni anticipate di G.I. Joe è stata spiegata con rinfrescante onestà dal vicepresidente della Paramount Pictures Rob Moore a Christy Lemire della Associated Press: «dopo la grande differenza che abbiamo avuto con Transformers 2 nella risposta del pubblico e della critica, abbiamo deciso di promuovere G.I. Joe evitando la pubblicazione o la trasmissione di recensioni il giorno dell’uscita. Vogliamo che sia il pubblico ad esprimersi sul film».
Ma questo non vuol dire che non ci sono state anteprime. In effetti il film aveva una percentuale dell’85% di recensioni positive su Rotten Tomatoes, anche se oggi (6 agosto) è sceso al 65% e continua a scendere. Perché una risposta così positiva all’inizio? Perché lo Studio aveva fatto vedere il film solo a (nelle parole dell’immortale Goldstein) “fanatici integralisti certificati”. E anche se alcuni di loro danno effettivamente spiegazione per le loro opinioni (sono convinto che Harry Knowles, sempre sia lodato, crede davvero in ciò che scrive), molti sono semplicemente contenti di aver dato “uno sguardo in esclusiva” per il proprio sito internet, onorando in questo modo la loro parte di un tacito accordo.
Ciò che solitamente accade nelle 24 ore precedenti l’uscita nordamericana di un film è che il Tomatometro inizia a scendere, e poi crolla nel momento in cui iniziano ad arrivare le recensioni dal Regno Unito o dall’Australia quando si avvicina la data di uscita internazionale. Un correttivo è il fatto che i punteggi di Metacritic, che sono spesso più bassi di quelli del Tomatometro, prendono in considerazione solo i critici (mi arrischio a dire) illustri e non i fanatici integralisti.
In ogni caso, come ripeto spesso, amo il cinema talmente tanto che ogni volta che qualcuno spende i suoi soldi per vedere un film gli auguro di passare dei bei momenti. Ma nonostante questo, non posso non lamentarmi dei 105 milioni di ore di vita che i nordamericani hanno buttato via per vedere Transformers 2. Come Gene Siskel amava dire, «è la tua vita, e non c’è alcun modo in cui tu possa averla indietro».

Qualche settimana fa mi sono spinto a dire che la differenza tra le opinioni dei critici e quelle del pubblico dipende dal fatto che i critici sono “più evoluti”. Ragazzi, l’odio si è davvero sparso ovunque… Sono ovviamente uno snob elitario… Ma provate a pensarci: non vi aspettereste che il critico abbia gusti più evoluti di un fanatico integralista? E una persona come “A Kid” dovrebbe essere evitata dai suoi compagni perché ha le proprie idee? O quell’altro mio lettore, quel ragazzo di 15 anni che dice di aver visto decine dei miei “Grandi Film”? Se siete suoi amici, non vale la pena di chiedersi in cosa si è imbattuto? E la persona con cui siete usciti venerdì scorso? Se vuole vedere solo i film che “tutti” vanno a vedere, come potrà essere una persona interessante con cui parlare?
In ogni caso, ho una buona notizia per Patrick Goldstein e tutti gli altri come noi. Così come il pubblico di riferimento dei critici cinematografici sta diventando sempre più vecchio, sta invecchiando anche il pubblico dei mezzi di comunicazione. Questo vuol dire che ci possiamo tutti far sentire solo dal tipo di pubblico che abbiamo. Come rimedio per salvarci da questa discesa nel Medio Evo che stiamo compiendo, ho una proposta molto semplice: raddoppiare gli stipendi degli insegnanti e dimezzare le iscrizioni alle scuole.

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